Finestre aperte su scenari sempre uguali. Solita strada, soliti lampioni, solito marciapiede deserto. Orizzonti che non mutano, lontani e inarrivabili. Una porta che non si apre, che si fa sigillo di una nuova normalità, limitata e trattenuta. Ma anche rifugio, senso di protezione, nido sicuro mentre fuori tutto crolla o tutto cambia.
Mai come durante gli ultimi mesi siamo stati costretti a confrontarci con l’idea di “casa” e a ripensare il rapporto con ciò che definisce il luogo in cui viviamo. Abbiamo scoperto di avere case troppo piccole o troppo grandi, troppo affollate o troppo silenziose. Ci siamo magari resi conto che “casa” non è soltanto un luogo fisico dove attendere il passaggio della tempesta, ma un luogo dell’anima, un modo di vivere che si fa casa nel movimento. Abbiamo realizzato che casa può significare perdita o ritrovamento, abbandono o conforto.
“Nessun uomo è un’isola”, scriveva John Donne, e nessuna persona è sola nel luogo che abita, sia esso un micro-appartamento in una grande città post-pandemia oppure un villaggio nel cuore della savana africana, sia esso un confine labile dell’infanzia o un quartiere decadente che accoglie e protegge molteplici solitudini.
Ed ecco allora che negli ultimi mesi ci siamo trovati costretti – forse per la prima volta – a porci una domanda che esula dalla dimensione privata e assume il colore di un quesito collettivo: cosa significa, oggi, “casa”? Cos’è il senso di casa per popoli lontani, per quartieri che sono micro mondi o per comunità che vedono sfaldarsi ciò che le ha sempre definite? Siamo ciò che abitiamo, oppure ciò che viviamo diventa “casa” nel momento in cui si fa ricordo e narrazione? Casa come senso di radicamento in un luogo, in una comunità, in un tempo presente o passato?
Comincia così questo nostro viaggio alla ricerca di cosa significa, oggi, chiamare un posto “casa”, che sia un punto fermo fatto di mattoni, di assi di legno o di fango, che sia una sensazione, un ricordo, una mancanza, o un luogo nell’anima in perenne cammino.
Nei suoi 87 anni di vita, Luigi Lanteri ha sempre chiamato casa un posto soltanto: il minuscolo borgo di Realdo, un nido d’aquila sospeso tra roccia e cielo nel cuore delle Alpi Liguri, al confine con Francia e Piemonte. Terra di lupi e di pastori, di sentieri transfrontalieri che tracciano storie diverse da quelle scritte sugli atlanti: a disegnare gli attuali confini – che hanno mutato in Liguria e Francia ciò che prima era Piemonte – sono stati infatti gli accordi di Parigi del ’47, e l’intera comunità un tempo facente capo a Briga Marittima è stata smembrata. Brigaschi, si chiamano gli abitanti di queste vallate, uniti dal perno del Monte Saccarello e divisi dalla politica: erano allevatori, agricoltori, commercianti di lana. Oggi sono pochi quelli rimasti quassù, a far echeggiare tra i carrugi l’antica lingua brigasca, discendente dalla Langue d’Oc provenzale.
Luigi è uno di quei pochi e assiste a una emorragia lenta, gente che se ne va e non torna più, case che vengono aperte solo d’estate, vie vuote e fontane che gorgogliano solo per le volpi di passaggio. «Pensi mai di andartene?», gli chiede chi passa a trovarlo, cercando di capire il senso del suo restare nella sua casa di pietra affacciata sulla vallata. Ma lui scrolla le spalle e sorride: «Andarmene? E perché? Questa è sempre stata casa mia, dove volete che vada?».
“La casa di Luigi sembra uscita da un libro di storia. Una stanza scarna e in penombra funge al tempo stesso da cucina, salotto, sala da pranzo; una vecchia cucina a legna tossicchia in un angolo, poche tazze sbeccate fanno mostra di sé su una mensola sbilenca e qualche attrezzo da pastore – un campanaccio usurato e una vecchia forbice da tosa arrugginita – se ne sta appeso a un gancio, a metà strada tra il ricordo e la dimenticanza.
Niente ninnoli, niente fronzoli: altrove questa stanza sarebbe definita “minimal”, ma non servono anglicismi per raccontare la dignità, la geografia privata di una vita umile, abituata a possedere solo l’essenziale e a prendere il resto in prestito dalla montagna. Cosa resterà di queste vite, viene da domandarsi, quando gli ultimi testimoni se ne saranno andati?”
Allora forse casa è un luogo in cui restare a dispetto di tutto il resto.
A dispetto di un mondo che non ti conosce e non ti capisce,
e a dispetto di un mondo che ti vuole cambiare.
Immobilità e mutamento: un fluire costante.
In mezzo, la ricerca di un’isola per se stessi, per la propria comunità, per i propri figli.
Per la propria storia passata e futura.
Sono chiamati i “nomadi del mare”. I Moken dell’arcipelago Mergui, nel mar delle Andamane in Thailandia, hanno fatto dell’acqua la propria casa. È un vivere a pelo d’acqua, il loro, scandito dai venti, dalle onde e dalla luna: un vivere che però, oggi, subisce la minaccia delle autorità birmane e thailandesi, che vedono nello stile di vita dei Moken un ostacolo al turismo. Hanno cercato di renderli stanziali, di sradicare la loro identità culturale, di cambiare la loro casa per renderla simile e assimilabile a ciò che è noto e “normale”.
C’è chi si è piegato. Ma c’è anche chi resiste, gruppi che continuano a navigare il mare delle Andamane come facevano i loro avi, ancora in simbiosi con l’acqua e con la natura. Una casa che fluisce, una dimora eternamente mobile ma che rimane per loro un punto fermo nelle assi di legno della kabang.
“[…] Sono coloro che continuano a navigare le acque del mare delle Andamane a bordo dei “kabang”. Imbarcazioni che a seconda delle situazioni, sono casa, rifugio, strumento di lavoro. Questi, sono per lo più uomini, quasi totalmente assenti nei villaggi. Le donne invece, sulla terraferma, lavorano per loro, tessendo o riparando le reti necessarie per la pesca. Allevando e accudendo i figli, occupandosi delle questioni domestiche.
I Moken vivono in simbiosi con il mare, non hanno legami con nessuna terra in particolare. Possono interrompersi strade o ponti di duro cemento, ma mai si spezzerà il cordone che li lega alle acque. Basta salire su una zattera e aggrapparsi a questo “cordone” per essere trascinati in questo mondo, rimasto a galla tra terra e mare.”
“…anni fa mi sono ritrovata nel documentare una storia, i Moken – Una vita a filo d’acqua.
Mi ricordo che c’era un silenzio anomalo rispetto al giorno precedente, non c’erano gli schiamazzi dei bambini, non c’erano martellamenti, sentivo solo gli insetti e una umidità che si attaccava addosso. Questo silenzio, però, per me era familiare, confortante. Non mi creava disagio, non mi metteva in ansia.
Semplicemente i Moken stavano dormendo e c’era una quiete tipica del mattino o, almeno, di quei mattini che io preferisco.
Quindi mi sono aggirata con molta tranquillità anche cercando di fare poco rumore, anche perché ero sempre a casa degli altri.
E ricordo che incontrai, invece, una donna che stava raccogliendo delle erbe e, come avrei fatto se mi fossi trovata a casa mia di prima mattino, la salutai in quello che può essere considerato un gesto universale: unendo le mani e accennando un sorriso. Dopo qualche istante di titubanza la donna mi sorrise e quel gesto mi mise fortemente a mio agio ed è la stessa sensazione che avvertito tutto il tempo che sono stata in quel luogo. Non mi sono sentita di troppo. Quindi mi sentivo libera di poter rimanere e dove il mio cuore si sente, oggi, libero di poter tornare.
Quindi, fondamentalmente, da questo posso aver capito che una casa possono essere due pezzi di legno uniti tra di loro a formare una capanna, come può essere cemento o dei mattoni, può essere comunque una “base x” che sia un luogo, o che sia una circostanza, che sia uno spazio temporale, ma allo stesso tempo è anche un orizzonte, una prospettiva. Una base da cui si parte e poi si torna, semplicemente perché lì ci siamo stati bene. Si torna fisicamente, si torna solo con il pensiero, come si può tornare con il cuore. Perché in quel luogo in quella circostanza in quel momento, noi ci siamo sentiti a proprio agio, siamo stati bene; siamo stati a casa.
Il senso di casa è un senso di benessere, dov’è il luogo in cui si sta bene. E’ la condizione dove si sta bene. Il luogo dove possiamo tornare.
Nel villaggio Masai di Rombo Manyatta, le 37 case che compongono l’insediamento sono costruite in terra e fango, toni di rosso pastoso lungo strade polverose e scarni alberelli sghembi. Sono le capanne di un popolo di nomadi e seminomadi, pastori della savana che vivono in case apparentemente scarne, friabili, facili da spazzare via dalle piogge o da sbriciolare nella siccità. Siamo nel distretto di Loitokitok, ai piedi del Kilimangiaro, nella parte meridionale della Rift Valley, che ospita il maggior numero di Masai in Africa: Rombo è il maggiore dei quattro “Manyatta” – cioè insediamenti – dell’area, e accoglie poco meno di una quarantina di abitazioni. Andrea Calandra ha trascorso due settimane nel villaggio di Rombo Manyatta, ospite di una mama nella sua minuscola casa di fango, per provare a capire «cosa significava vivere nella savana in quelle capanne. Volevo conoscerne la quotidianità».
Quella dei Masai, oggi, è una vita che scorre sul filo sottilissimo tra tradizione e modernità. È un’identità in bilico, radicata nel passato e affascinata dal futuro, le nuove generazioni sedotte da cellulari e motorini eppure ancora radicate nel luogo che ne definisce l’appartenenza, quell’Africa della natura selvaggia, dell’umanità priva di infrastrutture che ancora si può trovare fuori alle grandi città. Che ne sarà, viene da chiedersi, di queste fondamenta di terra e fango, se tutto dovesse cambiare? Forse sarà solo il tempo a dare una risposta.
“[…] La contattai immediatamente e lei, subito entusiasta del mio progetto, mi disse che aveva in programma di ritornare alla comunità Masai in Kenya e che mi avrebbe quindi fatto da tramite.
Non ci pensai due volte e tra l’organizzazione logistica, rinvii e altri ostacoli riuscii a maggio 2016 ad andare in Kenya, dove incontrai Catarina e la comunità Masai di Rombo Manyatta che mi accolse nel villaggio per due settimane, ospitato da una delle mama del villaggio, in una minuscola capanna di fango.
Mi ritengo molto fortunato ad aver avuto l’opportunità di vivere questa esperienza.
“…ho realizzato il lavoro Journey to Masai Land, presso la comunità Masài di Rombo Magnata in Kenya.
Il concetto di Casa che ho scoperto trascorrendo con loro un periodo di tempo, e avendo la possibilità di vivere con loro, di dormire dove dormono loro, nella loro casa, è stato quello di un’idea di casa un po allargata nello spazio.
Noi, come casa, intendiamo un luogo chiuso mentre la loro vita è più relazione con l’ambiente, con l’esterno. La giornata inizia molto presto e la casa rimane un luogo aperto; si esce la mattina per raccogliere l’acqua, si portano fuori gli animali. La casa è un luogo dove riposare, il luogo dove trascorrere la notte, dove riporre le proprie cose. Le case sono capanne di fango che con il tempo si deteriorano; vengono man mano riparate con il fango che si trova all’esterno; le case sono dei capanni di fango. Quando ci si ritrova la sera per andare a dormire, il momento in cui si andava a dormire era proprio quando sopraggiungeva la notte, quando non si vedeva più nulla; la notte era densa e avvolgente tanto da non esserne abituati. C’era questa piccola candela accesa all’interno della capanna che veniva spenta e si andava a dormire su dei letti molto piccoli nonostante i Masai siano, invece, molto alti. Io ero ospitato in una piccola capanna da una donna e la sua nipotina anche si chiamava Seneu, questo nel 2016
Il mio concetto di casa è qualcosa legato alle persone, e questo, probabilmente, è qualcosa che unisce un po tutti. La casa è sicuramente un luogo fisico che dà riparo ma soprattutto è un luogo dove si ritrovano le persone che amiamo. Nel mio caso sicuramente potrei dire di sentirmi a casa ovunque, con la mia famiglia. Sicuramente mi sento legato al posto in cui sono nato, in cui vivo. Però sicuramente la cosa che mi fa sentire a casa, effettivamente, non è “la casa” in cui mi trovo, all’interno di una struttura fisica, ma piuttosto un circondarmi di persone che amo. Sicuramente nel mio caso la mia famiglia rappresenta il mio sentirmi a casa e questo sarebbe vero in Italia, a Roma dove vivo, così come qualsiasi altro nuovo del mondo
“Home is where one starts from” scriveva Ferlinghetti citando Eliot.
Per me sono due.
Un’idea fisica: a 20 anni scappi di casa, a 30 consideri il mondo casa tua, a 40 ti costruisci una casa col proposito di invecchiarci.
E poi un’idea intima, legata all’essere non all’avere: la lingua che adopero.
Senza sembrare un monaco sono per carattere solitario, figlio di contadini cresciuto sull’Appennino, immerso in un equilibrio tra la mano dell’uomo e la natura.
Ora che abito in città ho bisogno almeno di ricreare quell’armonia dentro di me.
“It might be lonelier / without the loneliness” scriveva Dickinson.
Sono le lenzuola stropicciate dopo aver fatto l’amore, la radio in bagno con mia moglie che canta, il vapore del latte bollente che sale dalle tazze quando le preparo la colazione mentre fuori piove e le nuvole corrono veloci… e un libro aperto pieno di appunti che mi aspetta sulla scrivania.
O forse lo scorrere del tempo semplicemente distruggerà ciò che c’era prima, cambierà il concetto di casa. Con la forza delle ruspe e della modernità, se necessario, per creare nuovi complessi residenziali: a Shanghai sorgono grattacieli, il Business District getta ombre lucenti dalla riva sinistra dello Huangpu, le gru disegnano uno skyline diversissimo da quello di pochi decenni fa. Non ci sarà più spazio per le vecchie case e i loro abitanti, che qui, a differenza dei borghi alpini dimenticati da dio e dagli uomini, vedono giorno dopo giorno la loro città mutare. Per sempre.
Ci si può sentire a “casa” anche nei ricordi, e in quegli oggetti che una persona cara ci lascia quando se ne va via per sempre. È quello che è successo a Marco Barbieri.
Ordinando gli utensili del padre ha dato vita al progetto HoMe.
«Sono passati poco più di due anni dalla morte di mio padre e inizio solo ora a fare un po’ d’ordine, dentro e fuori di me. Quando scompare una persona così presente spesso si dice che ha lasciato un grande vuoto. Invece mio padre è riuscito a riempire tutto quanto, non ha lasciato uno spazio minimo tra i suoi insegnamenti, le sue mancanze, il suo spirito, il suo esempio. […]»
Una casa eterna quanto un ricordo che passa di generazione in generazione. Una città nella città. La silenziosa e maestosa dimora dei morti all’interno di uno dei barrio più dinamici e vivi di Buenos Aires. Il Cemeterio de la Recoleta è un luogo sospeso nel tempo, suddiviso in isolati e vicoli pedonali. I suoi oltre 54mila metri quadrati ospitano 4mila e ottocento sepolture, tra eleganti mausolei in marmo e loculi più essenziali. Qui, i corpi non sono dati in pasto alla terra o riposti nelle urne – come accade negli altri luoghi di sepoltura della città – ma vengono preservati per vivere in eterno, attraverso la tecnica dell’imbalsamazione.
Non ci sono fotografie a ricordo dei defunti, neanche una: ci sono statue e bassorilievi con i lineamenti di chi non c’è più. Un’immagine di pietra nata per rimanere immobile nonostante il fluire del tempo, senza sbiadire anno dopo anno sotto il peso delle intemperie. Le statue del Recoleta – angeli compresi – hanno gli occhi aperti e sono sempre intente a fare qualcosa. La maggior parte di loro osserva chi entra, chi si muove tra i vicoli della loro casa, chi si trova a curiosare tra cumuli di memorie stratificate.
I morti del Recoleta rimangono in vita fintanto che c’è qualcuno che li ricorda e che si prende cura della loro casa. Quando questo ricordo scompare, vuoi per destino o per scelta, anche loro lentamente si inabissano nell’oblio di una dimora eterna che, però, non possono più chiamare casa.
Equivocamos esa paz con la muerte y creemos anhelar nuestro fin y anhelamos el sueño y la indiferencia
da "La Recoleta", di Jorge Luis Borges
”Ma il fascino più grande non risiede nella maestosa arte dei sepolcri di lusso quanto piuttosto nelle tombe frantumate, bare
scoperchiate ricoperte di ragnatele e lasciate al totale abbandono, polvere, macerie vasi rotti, fiori secchi, tessuti indeboliti e stanchi. Il
tutto è un amalgama di colori che si immergono in un’atmosfera color pastello, diventando dei veri e propri antichi dipinti.”
E poi ci sono luoghi dove ci si sente a casa senza un vero motivo apparente. Non ci sei nato, non hai radici da condividere, eppure scorrono nelle tue vene, pulsano al ritmo del tuo stare. E quando per un po’ mancano, il fiato si fa corto e il passo stanco. Hai bisogno di quei luoghi per ritrovare il tuo punto fermo, perché il tuo è un essere errante. Giramondo per necessità, hai il privilegio di chiamare casa anche un furgone su cui hai vissuto due mesi percorrendo le strade del Sud America, oppure un bungalow in cui hai trascorso una notte nella foresta, in compagnia di una tarantola.
«C’è qualcosa di misterioso nella maniera in cui il giramondo – quello che sta fuggendo o cercando, o quello che si muove al ritmo sovraesposto di entrambe le motivazioni emotive – resta vincolato per qualche ora al luogo da cui passa, e lo fa diventare casa sua, una sorta di placenta provvisoria che, per quanto effimera, lo avvolge per il tempo necessario.»
Da “Amor América. Un viaje sentimental por América Latina“, di Maruja Torres
“Ho viaggiato perché l’ho sempre ritenuto una condizione fondamentale del mio stare.Il mio luogo personale, a volte condiviso a volte privato.
Il viaggio – senza essere un viaggiatore – come
condizione per pulirsi e affrontare liberi i racconti che saprò in quel momento cogliere.
Il viaggio che obbliga alla costruzione di un luogo. Un luogo che è dentro di noi.”
Una casa sul confine. O, forse, un confine che è casa: con le sue regole, scritte o meno, con il suo strascico di storie e di fantasmi, con le sue appartenenze frammentate.
In “CONFINE. VIAGGIO AL TERMINE DELL’EUROPA” (EDT edizioni, 2017), la scrittrice bulgara Kapka Kassabova affonda il cuore e la penna in un luogo tormentato, onirico, profondamente segnato dal suo essere limite tra i mondi: siamo sul confine che separa Bulgaria, Grecia e Turchia, nell’area che ai tempi della Guerra Fredda era considerata una via di fuga dal blocco di Varsavia più “facile” rispetto al Muro di Berlino, una cortina di ferro solo apparentemente più morbida, e che anche oggi – a quarant’anni di distanza – continua a essere crocevia di destini in fuga. In passato a tentare di uscire erano tedeschi, bulgari, cechi; oggi a voler entrare sono curdi, siriani, afghani a caccia di un futuro in Europa. Ma non c’è retorica o didascalia nelle righe della Kassabova: la tensione del confine lei l’ha vissuto sulla propria pelle, ha trascorso le estati sul Mar Nero a pochi passi dalle montagne dello Strandža, dove correva il filo spinato, è riuscita a fuggire con la sua famiglia e solo vent’anni dopo è riuscita a tornare, a vedere i «volevo vedere i luoghi proibiti della mia infanzia, i paesi e le città di confine un tempo militarizzati, i fiumi e le foreste a cui l’accesso è stato vietato per due generazioni». Soprattutto, è tornata per provare a decifrare le cicatrici della sua terra e delle popolazioni – villaggi sperduti, minoranze, solitudini – che hanno vissuto e vivono tutt’ora su quel doloroso confine.
È quindi un viaggio verso le proprie radici, quello intrapreso dall’autrice tra le pianure della Tracia e i Monti Rodopi, tra lo Strandža bulgaro e quello turco, tra fiumi e città che hanno cambiato più volte il nome ma non l’anima: terre di foreste millenarie, di tombe antiche, di riti pagani mascherati di ortodossia, ma anche terre di cacciatori di tesori e contrabbandieri, di rifugiati e di ultimi custodi di villaggi fantasma. «Dov’è la tua memleket? Che cosa ci fai qui?», le chiede in uno dei suoi viaggi il giovane Ahmed, usando la parola turca per indicare la patria. La Kassabova non ha una risposta, il suo è un viaggio di ricerca prima che di narrazione: e allora, leggendo, non si può fare a meno che seguirla nel suo sradicamento, incontrare chi incontra, immergersi nelle storie che riporta. Sentendosi come lei a casa laddove le storie si manifestano, laddove “casa” significa, semplicemente, incontro. A dispetto di tutti i confini.
Una chiave è una casa in cui tornare.
Quando esci di casa, chiudi la porta sapendo che
quel luogo ti aspetterà il tempo necessario al tuo ritorno.
Quando questo non avviene, quando non sai se ci tornerai
o il momento in cui questo avverrà,
la chiave diventa un simbolo di protesta,
una lotta condivisa, un diritto alla vita.
Un luogo (ideale) in cui continuare ad esistere.