La sinestesia, per uno scrittore, è quella figura retorica che gli permette di “associare in un’unica immagine due parole o due segmenti discorsivi riferiti a sfere sensoriali diverse.”
(tratto dalla definizione dell’Enciclopedia Treccani)
Un esempio?
Fabrizio De Andrè cantava “corsi a vedere il colore del vento“, ne Il sogno di Maria.
La sinestesia serve quindi a creare corrispondenze: tra sensi, tra pensieri, tra mezzi di espressione.
In fotografia, la sinestesia permette all’autore di comunicare con il pubblico a diversi livelli. Fa leva sul substrato personale di ognuno di noi, quel famoso background che ci caratterizza come persone. Dai libri che leggiamo, alla musica che ascoltiamo, ai profumi che sappiamo riconoscere e che magari generano in noi un’emozione precisa o un ricordo ben definito.
Creare correlazioni è uno dei piaceri, e dei doveri, del fotografo. Sono relazioni più libere rispetto a quelle della scrittura. Difficilmente controllabili in toto dall’autore, nascono nella nostra pancia e per crescere hanno bisogno di noi. Davanti a una fotografia ci si mette in gioco, completamente. Si resta impigliati in connessioni che neanche ci si immaginava per poi uscirne con una consapevolezza nuova.
Ogni fotografia è un tassello, un impegno a evolvere. Ma solo se vogliamo prenderci questa responsabilità. Se non ci mettiamo in gioco, se non seguiamo le sinestesie che contiene, sarà solo un’altra immagine nel panorama già troppo affollato di questi tempi.