Siamo a Bangkok e, alla costante ricerca dell’autentico, decidiamo di visitare il distretto di Khlong Toei, dove risiede il più grande mercato del fresco della città. Un guazzabuglio di bancarelle e padiglioni che compone una fitta rete di sentieri in cui carrette e motociclisti si fanno strada attraverso le corsie affollate. Aperto ventiquattro ore su ventiquattro, i commercianti lavorano senza interruzione, saziando le bocche di più di 10.000.000 di persone.
“Qualsiasi cosa tu mangerai a Bangkok, sappi che proviene da qui” mi dice Gabriele arrivati dinnanzi agli infiniti ingressi di questo labirinto.
Decidiamo così di separarci, lasciandoci guidare dai sensi e dalla curiosità di saggiare, anche solo per poche ore, il viscerale amore per il cibo tipico della tradizione asiatica.
Trasportato da una corrente di corpi, si palesa ai miei occhi una parte più buia del mercato, dove ombre trasportano carcasse e brandelli di carne.
Entro in un luogo dove la luce non trova spazio. Fievole, si tinge di rosso, con brandelli di intestino che colano dai tavoli mentre bestioline striscianti cercano di nutrirsene. I piedi avanzano nel buio mentre l’aria che si respira è una miscela di morte e di vita.
I macellai sghignazzano allegramente mentre io, inconsapevole farang*, mi faccio accarezzare dall’orrido, in cui colpevole, ci trovo del gusto e sento che la crudezza di questo posto è pregna di sacertà.
Cerco di trovare un senso a tutto questo, forse ancora non c’è, ma lo attendo in un tempo che scorre scandito dal rintocco dei machete.
Sarà vero che a ogni sacrificio corrisponde il segno di una vita, passata, futura, che resta difficile da comprendere, ma sono disposto ad accettarla se questo significa lasciarsi abbandonare a tutta questa umanità.
*Farang
termine persiano utilizzato in Thailandia per indicare genericamente l’uomo europeo bianco