Una storia persa nei millenni
Per quasi due secoli gli inglesi ne hanno storpiato il nome in Benares perché – si dice – incapaci di pronunciarlo correttamente. Ma da sempre, il nome della città sacra dove tutto ha origine e a cui tutto ritorna è Varanasi, nello stato del Uttar Pradesh, nel nord dell’India.
Raccolta tra due affluenti della Madre Ganga, Varuna a nord e Asi a sud, Varanasi – o Kashi, come la chiamano gli induisti in onore del popolo ariano che nel 1200 a.C. si stabilì sulle rive del grande fiume – è il luogo dove gli indù si ricongiungono al divino. Dove tutti i peccati del karma vengono espiati. Dove si aprono le porte del Moksha (il ciclo infinito della reincarnazione) che obbliga a rinascere nell’illusione terrena.
Varanasi è la terra degli Dei ove non c’è alcuna differenza tra sacro e profano perché qui tutto è sacro. Dalle strade della città vecchia ai viottoli che portano ai ghat; dagli odori forti al rito della morte che altro non è che trasformazione; dalle coloratissime saree stese ad asciugare sulle mura del Dhobi Ghat alle ceneri che raggiungo le acque del grande fiume sacro. Varanasi è la città che ogni induista almeno una volta nella vita deve calpestare. È la città dove ogni induista aspira a morire.
Varanasi non è un luogo comune, non è un sentito dire
Nell’immaginario occidentale Varanasi è là molto prima di averla realmente compresa. Ma la città sacra va conosciuta, va calpestata, vista nei suoi colori, respirata nei suoi odori. E riuscire a farlo significa entrare nei meandri di questa religione che è il senso stesso d’esistenza di questo popolo.
Conoscerla significa abbandonare il bagaglio stereotipato che portiamo con noi: le fotografie fugaci e inutili dei ghat, delle pire funerarie, delle abluzioni dei pellegrini nel Gange. Per conoscerla non è sufficiente l’immaginazione che molte volte cela la pochezza di spirito. Per raccontare Varanasi bisogna viverla, esserci, perdersi nelle piccole e sporche strade, sentirla. Nella sua infinita tristezza e povertà, Varanasi, è quell’esperienza profonda che ci spoglia; quell’esperienza che ci mette di fronte al diverso. Per gli induisti è la città del mito degli dei e della felicità. Il luogo sacro dove tutto ha origine e a cui tutto ritorna. E mentre la massa chiassosa di turisti cercano di strapparne il significato facendola a brandelli a colpi di preconcetti e giudizi, i viaggiatori la lasciano entrare liberamente dentro se stessi per uscirne diversi, cambiati, con qualcosa in più.
Perché dopo Varanasi nulla più rimane uguale.
Nella città di Shiva tutto è nudo e nulla viene nascosto. Un ciclo infinito tra la vita e morte, tra ricchezza e povertà, tra costruzione e distruzione. Palpabile sulla pelle ancor prima che negli occhi, la morte stessa assume forme spettacolari, teatrali. E nonostante le carni bruciate e i crani sfondati, anche nelle ceneri che si disperdono nelle acque della madre Ganga si percepisce ancora una volta la forza della vita.
La Vita dell’ultimo viaggio verso gli dei.
Il Gange è il fiume dell’India (…)Un simbolo dell’eterna cultura e civiltà indiana, che sempre cambia e sempre scorre, eppure rimane sempre la stessa
– Jawaharlal Nerhu
Un’esperienza immersiva nella città vecchia
Per un gruppo di massimo 5 persone, nello stato del Uttar Pradesh, India del Nord, è un workshop residenziale, un lavorare sul campo in modo immersivo e faticoso, sporcandosi mani e piedi, pensato e sviluppato per quei fotografi e reporter con la voglia di accrescere la propria esperienza, formazione e competenza nella fotografia documentaria, nel reportage, nel fotogiornalismo, nella narrazione.
Con ogni partecipante verrà ragionato e preparato uno o più argomenti da sviluppare: un vero e proprio assignment da portare a casa. Dalla ricerca delle informazioni alla pianificazione del lavoro, alla realizzazione del reportage.
Lo scopo è acquisire i processi e le esperienze della fotografia documentaria in condizioni di vita reale. Poca teoria, quindi, ma molta pratica per fare esperienza
Il lavoro sul campo a Varanasi
Ogni partecipante, seguendo il proprio lavoro, entrerà in contatto diretto con le persone, la comunità locale, e vivrà in prima persona le situazioni e il quotidiano che poi andrà a documentare. Non ci saranno sconti per nessuno: ognuno si dovrà mettere in gioco per portare a casa il risultato.
Un’opportunità unica per lavorare sul campo, con tutte le difficoltà e le necessità che un lavoro di reportage richiede: dalla gestione dei contatti in loco, al viaggio, alla risoluzione degli imprevisti, alla produzione del materiale finale.
E quale migliore occasione per mettersi alla prova se non questa, con la sicurezza di avere a disposizione una guida che queste situazioni non solo le ha già vissute, ma è in grado di padroneggiarle e fornire utili suggerimenti per affrontarle anche quando sarete sul campo, da soli.
A chiudere la giornata, ogni sera – e a volte la notte – , ci saranno le sessioni di editing del lavoro svolto fino a quel momento, con ampio spazio dedicato alla discussione e al confronto. La costante guida di Gabriele Orlini garantirà la giusta direzione nello sviluppo dei progetti e sarà un continuo supporto per ogni partecipante durante il lavoro sul campo.
Se cerchi un viaggio all inclusive o un workshop rilassante, questa non è l’occasione giusta. Qui vogliamo persone consapevoli delle proprie capacità, o futuri professionisti che sanno tirare fuori risorse inimmaginabili, ma che sanno anche quando è il momento di farsi da parte. Non super eroi ma testimoni di storie.