Era una sera d’autunno, una di quelle che portano la pioggia.
Nel mio monolocale a Buenos Aires, sotto l’unica grande finestra che incorniciava i tetti di San Telmo, sistemando gli appunti sul mio Moleskine, disegnavo una fotografia che realizzai solo un anno più tardi, nel nord dell’Iraq.
Molte volte si è tentati nel credere che una fotografia possa nascere per caso, a volte per una sorta di fortuna. E questo credere risulta molto più forte quando si tratta di reportage, quando si tratta di raccontare una storia dove non sempre si ha la certezza di cosa può accadere.
L’attenzione è alle stelle, gli occhi scattano in un moto continuo. C’è quel voler cogliere ogni particolare, ogni respiro. Ma la realtà delle cose, per un fotografo, è molte volte diversa.
Durante un piacevole incontro con Ryuichi Watanabe di NewOldCamera, qualche anno fa a Milano, affermai che non avevo l’abitudine di portare la macchina fotografica sempre con me, a meno che non fossi in giro per un qualche lavoro (lo so, può suonare strano per un fotografo).
Ma questa mia malsana abitudine non mi ha mai impedito di fare fotografia. Semplicemente lo faccio con altri mezzi, e uno di questi è, senza alcun dubbio, la scrittura: gli schizzi sul quaderno o sui tovagliolini del bar; lo smartphone, o qualsiasi altro strumento al momento disponibile.
Ho da sempre preteso per me stesso, quasi fosse un dovere morale, un approccio sentito alle storie che andavo a raccontare, un entrare a piè pari, un obbligo di sporcarsi (un concetto a me molto caro) anche se questo non mi ha esonerato, nel tempo, dal produrre lavori di dubbia qualità. Ma, come per la vita in generale, capita di inciampare pur sapendo camminare o di non trovare la giusta parola pur sapendo parlare.
Semplicemente… di sbagliare.
Quella sera d’autunno a Buenos Aires, nel mio piccolo monolocale a San Telmo, stavo lavorando sugli appunti di una storia che parlava di solitudine, di violenza, di prevaricazione, di alienazione.
E come spesso accade in questi momenti, dove un lavoro, un reportage, un progetto, viene respirato molto prima di prendere la fotocamera in mano, feci uno schizzo di ciò che la mia testa si stava immaginando, di come avrei voluto raccontare parte di quella storia che stavo iniziando a conoscere. Poi chiusi il quaderno e il mate concluse la serata.
A Buenos Aires, in quell’autunno, non realizzai mai quello scatto.
Un anno dopo a Erbil, nel nord dell’Iraq, la fotografia che volle parlare di solitudine, di violenza, di prevaricazione, di alienazione, trovò la sua luce. E il proprio respiro.