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15 gennaio 2025 – Colgo un altro gambo di rabarbaro e taglio la foglia prima di metterlo nella carriola poco distante, mentre il vento mi fischia nelle orecchie senza posa: questo gesto ripetitivo e poco intellettuale, in una fattoria che ha tutta l’aria di essere ai confini del mondo, è il perfetto punto di arrivo di questi due mesi passati a peregrinare.
Gli ultimi mille chilometri verso Sud sono scorsi come acqua. C’era solo la steppa, infinita e gialla, con una strada lunghissima e dritta a passarci in mezzo. Qualche pozzo petrolifero, recinzioni da ambo le parti con gli scheletri dei poveri guanachi rimasti incastrati e morti di stenti, ogni tanto l’oceano. I toponimi passavano sulla mappa senza che si palesasse neanche una panetteria per comprare qualcosa da mangiare. Poi un villaggio, una città o una minuscola Estancia, e altri 300 chilometri di deserto.
A Rio Gallegos ho fatto tappa a casa di Monica, la moglie di un autista di bus turistico che mi ha dato un passaggio. Mi ha aperto la porta e poco dopo è dovuta andare a fare delle commissioni con i due viziatissimi figli di 6 e 7 anni. Le ho detto che le avrei fatto trovare la cena pronta, e verso le 9.30 mi sono messa a cucinare del pollo seguendo le sue generiche istruzioni. Quando la bimba si è messa a tavola ha esclamato: “Che strano pollo! Non l’avevo mai visto così bianco!” riferendosi alla salsa di pomodoro che la mamma si era dimenticata di dirmi di aggiungere. “Cucini meglio tu” ha concluso, con l’eccitazione della novità, e io posso dirmi soddisfatta essendo probabilmente il primo pollo che cucino in vita mia. Al contrario, per gli spaghetti ho sbagliato pentola e mi è venuto fuori un orrendo appiccicume che mi ha fatto sentire indegna di essere italiana – chissà cosa avranno pensato di me.
Per tutto questo tempo a chi mi chiedeva quale fosse la mia destinazione rispondevo che non ne avevo una: volevo andare, più o meno sempre a Sud, vedere dove riuscivo ad arrivare e cosa c’era sempre dietro la prossima curva. E poi a un certo punto più a Sud di così non si poteva scendere. Mi sono scoperta a comprare pasta e salsa alla bolognese a peso d’oro in un supermercato di Ushuaia, insieme a un tipo irlandese conosciuto sul traghetto sullo stretto di Magellano, e ho pensato di essere più vicina all’Antartide che a Santiago, da dove sono partita.
Il giorno dopo siamo andati a fare un trekking per vedere una laguna incastonata ai piedi di un ghiacciaio, e quando siamo arrivati ho capito che era molto bello, ma ero – sono – stanca di vedere posti, per belli che siano. Ho in testa così tante cartoline non digerite, così tante chiacchierate con un mondo di persone diverse, così tanti momenti intensi che ho finito la RAM per assorbirne di nuovi. Tipo che si, bello fare trekking, ma la giornata l’avrei passata anche volentieri sdraiata a guardare il soffitto della tenda, bere caffè e mangiare biscotti con le gocce di cioccolato.
La mattina dopo piove e ho lo zaino al riparo sotto un tetto a bordo strada, mentre io sto facendo l’autostop – per la prima volta verso Nord – per raggiungere l’Estancia da cui vi sto scrivendo in questo momento. Mi carica una donna che sta facendo un giro domenicale in macchina con la figlia, a un certo punto si ferma in una panetteria a ricaricare il termos del mate negli appositi e gratuiti distributori di acqua calda e yerba. Gli argentini di questo rituale non possono proprio farne a meno: vanno in giro ovunque con il loro kit matero, e quando meno te lo aspetti assemblano tutto e cominciano a far girare la tazza, che ricaricano più o meno ogni volta che qualcuno dà un sorso. La signora me lo offre, e condividiamo la cannuccia di acciaio anche se ci siamo conosciute meno di un’ora fa.
L’Estancia è un gruppetto di edifici dal tetto rosso, ognuno dei quali ha una precisa funzione: casa padronale, casa dei peones che si occupano degli animali, casa delle ragazze che lavorano nell’orto e in cucina, stanza di elaborazione dei trasformati, serra, rimessa. Quando arrivo è l’ora di pranzo e c’è un gran fermento per servire gli ospiti del corso di orticultura che si sta tenendo nel weekend. Scoprirò presto che qui non ci si ferma mai, dalla prima mattina alle ore piccole è un formicaio di gente che va e che viene, presa nelle più varie occupazioni e nella risoluzione di imprevisti.
Poi entro in cucina e mi sembra di essere a casa mia. Mestoli e pentole appesi ovunque, la stufa al centro della stanza e dell’attenzione, un lavandino che si svuota e riempie costantemente di piatti da lavare, più o meno con lo stesso ritmo con cui qualcuno decide di preparare una torta, o una salsa, o il pane, o un’altra torta. Mischio uova e zucchero per fare gli scones, biscotti con più burro che anima, e mi immergo in questo flusso fatto di chiacchiere, ottimo cibo, un’atmosfera accogliente e piante che crescono in un clima estremo, spazzate dal vento. Fuori dalla finestra c’è ancora la steppa, una distesa di erba giallastra che non basta alle mucche per fare il latte.
I giorni qui me li godo uno a uno, li sfoglio come le pagine di un libro, assorbo ed elaboro e mi riposo prima che sia tempo di riaccendere il turbo, andare a Nord e cominciare una tappa del tutto nuova di questo viaggio.