Diari dalla Cambogia | Phnom Penh, 06 settembre 2019
Era il 1979 quando il fotoreporter vietnamita Ho Van Tay, condotto dal tanfo dei cadaveri in putrefazione, entrò a S21, ovvero Tuol Sleng che in lingua khmer significa La collina del mango selvatico.
Un tempo scuola di secondo grado a Phnom Penh, nel 1975 fu trasformata nel principale centro di detenzione, interrogatorio e tortura del sanguinario regime dei khmer rossi di Pol Pot.
Ciò che Ho Van Tay – che fu il primo rappresentante dei media a documentare quanto era avvenuto all’Ufficio di Sicurezza 21 (S21) – si trovò di fronte non aveva nulla di umano. Nelle aule della ex-scuola, nel primo complesso, letti in metallo trasformati in macchine tortura. Corpi straziati e mutilati ancora ancorati con le barre di metallo al letto. Il secondo complesso trasformato in centro di detenzione con micro celle di mattoni o di legno. E intere stanze dove i prigionieri venivano stipati a terra tra atroci sofferenze, lasciati nello sporco dei loro propri corpi.
Un altro edificio conteneva i documenti, meticolosamente compilati, di tutti i detenuti che passarono a S21, foto segnaletiche, verbali degli interrogatori, note di sperimentazioni mediche stile Mengele.
Questo era quanto Ho Van Tay si trovò davanti e che, da quel momento, il mondo intero non poteva più continuare a non vedere. Doveva guardare. Si conta che a S21 furono condotti circa 20mila persone e solamente 7 riuscirono a sopravvivere perché dichiarati “utili alla causa del partito”. Il regime dei Khmer Rossi, tra gli anni ’75-’79, aprirono in tutta la Cambogia altri 7 centri di detenzione uguali a S21.
Durante il processo del Tribunale Internazionale per i Crimini contro l’Umanità , il compagno Duch al secolo Kaing Guek Eav, importante esponente del partito dei Khmer Rossi e responsabile del centro di detenzione S21, dichiarò che chi veniva portato a Tuol Sleng non aveva alcuna possibilità di uscirne vivo. Che fosse colpevole o innocente era solo una formalità inutile. Per ognuno di loro uscire da S21 significava andare a Choeung Ek, il Killing Field – Campo della Morte a 15km a sud di Phnom Penh e gettato nella fossa comune con un colpo di bastone al collo o alla nuca “… perché i proiettili costavano troppo per questo tipo di morti”, come riporta la testimonianza di Duch durante il processo il 17 febbraio 2009.
Nota
Durante il processo, Kaing Guek Eav, pur avendo nella prima deposizione ammesso le sue responsabilità, a novembre 2009 respinse tutte le accuse a suo carico chiedento l’assoluzione, affermando di aver agito nel rispetto “dell’esecuzione degli ordini di Pol Pot”.
Il 26 lugio 2010, sotto l’egidia delle Nazioni Unite, Kaing Guek Eav conosciuto come il Compagno Duch, fu condannato a 35 anni di reclusione.
Furono molti i Paesi che appoggiarono direttamente (o indirettamente) il regime sanguinario di Pol Pot che voleva una Kampuchea nuova, un’eccellenza a vantaggio dell’idea più pura del totalitarismo comunista operaio. E per creare questa nuova società, purificata dall’idea e dall’ingerenza occidentale e pure indocinese, il suo piano prevedeva la cancellazione totale della vecchia società, generazioni in erba comprese, a vantaggio della più pura attuazione dell’idea maoista.
Un’utopia che sfociò in quello che la storia ricorda come il genocidio cambogiano.
Entrare oggi a Tuol Sleng
Sono entrato nella ex-scuola superiore Tuol Sleng al mattino presto, quando il caldo e gli ultimi strascichi della stagione monsonica non erano ancora pressanti sul corpo.
Nel 1980 fu trasformato in un museo, il Tuol Sleng Genocide Museum, e oggi si presenta esattamente come l’esercito vietnamita lo trovò nel 1979.
Ripulito dai corpi straziati e mutilati ancora presenti nelle aule della scuola, non fu fatta alcuna opera di bonifica o modifica alla struttura. Con una media di più di 500 visitatori al giorno, e molti di questi cambogiani, il museo oggi è un monito alla follia umana – che sia di una persona o di molte che in questa hanno trovato la ragione del loro sfogo animale.
Attraversare le aule vuote, le microscopiche celle, o toccare con mano le sbarre di ferro utilizzate per incatenare i prigionieri è una sensazione che rallenta il tuo respiro. Un silenzio innaturale quasi a voler cogliere il lamento, lo strazio, l’urlo soffocato di quanti in quelle mura hanno urlato ancora nella speranza di poterne uscire liberi, ma ignari che questo non sarebbe mai avvenuto.
Calpesti quei pavimenti e ti chiedi se le macchie che vedi sono solo il segno dei tempi oppure il sangue che ha impregnato le piastrelle un tempo colorate. Calpesti quei pavimenti e guardi dove metti i piedi nel timore e nel rispetto di chi – dopo averlo calpestato prima di te – non ne è più uscito.
E alla fine ti chiedi: perché?