Settembre ’22. Mekong Riverside. Fango.
Somiglia un po’ al fango, la luce che c’è in questa città: densa, polverosa e un po’ torbida, di un colore che richiama il riflesso del Mekong, che fa da confine naturale col Laos e sparge terra nel colore dell’aria tanto quanto nelle sue acque, assorbendo il grigio delle nubi quando piove e lanciando barbagli caffè dorato del sole tutt’intorno, nei rari momenti in cui il cielo si apre e il Monsone si calma.
È un momento dell’anno molto particolare per la Thailandia: siamo quasi alla fine della Quaresima Buddhista e Nong Khai, città principale dell’omonima provincia del nord est, è uno dei principali luoghi in cui si celebra proprio il termine di questo periodo sacro, che si concluderà tra qualche settimana col Festival per i Naga Fireballs, l’evento naturale ancora inspiegabile dalla scienza che attira turisti non solo da tutto il sud est asiatico, ma dal mondo intero.
Il Lungofiume, il Riverside, il cuore della città, è vestito a festa: ovunque splendono luci e bandierine di carta che segnalano la partecipazione prevista di moltissima gente; la piazza davanti al Mekong dove convergono i due lati del Riverside si riempie di sedie in silenziosa attesa delle persone che le occuperanno, e si odono da un capo all’altro del Lungofiume gli inviti al Festival del sabato. Eppure…
Eppure, per quanto ci si sforzi di entrare nello spirito della festa, qualcosa non quadra, qui a Kong Khai. Di tutti i turisti che dovrebbero esserci un questo periodo, di tutta la gente che dovrebbe posare i piedi su queste pietre per assistere alla celebrazione delle festività, in realtà non c’è una sola persona non autoctona in tutta la città. Si vedono thailandesi nativi di Nong Khai, laotiani che lavorano da questa parte del fiume e che lo attraversano quotidianamente, espatriati degli stati del Commonwealth che hanno deciso di venire a passare la vecchiaia in Thailandia e che, con tutta la commozione di cui sono capaci, piangono la morte dell’amata Regina Elisabetta II dalle panche dei pub irlandesi che picchiettano di verde trifoglio il Riverside, ma nessun altro. Nessun turista, nessun viaggiatore, nessuno straniero, nessuno che sia semplicemente di passaggio. Al di là delle 4-5 persone per volta (rigorosamente asiatiche) che si possono incontrare nei negozietti affacciati sul fiume o nei ristoranti, le strade sono vuote. E allora tutta questa preparazione, tutta questa organizzazione, tutto questo entusiasmo, per chi è?
Per nessuno, si scopre. Il Riverside vestito a festa, che dovrebbe essere pieno di gente, investito dalla musica e dai canti di preghiera, è vuoto. Il Mekong è desolato, nel suo colore pastoso e denso. La pioggia cade su una Nong Khai vuota, inondando l’atmosfera di un blu che penetra il grigio delle nubi e colora l’aria di un senso di arcana malinconia. Passeggiando lungo il fiume si incontrano le poche persone che si avventurano sotto la pioggia, che restano a distanza come in un sogno, si intravedono dalla strada sedute nei caffè o impegnati nelle loro attività ed entrano nel campo visivo quasi casualmente, rimanendo sullo sfondo. La nostalgia permea l’energia del visto, facendo del non visto il protagonista della storia. E in questa immagine di quiete e solitudine il Riverside appare come un personaggio inglobato dalla sua atmosfera. Il Tutto asservito al Vuoto.