Non sono mai stato in Australia.
E nemmeno in Nuova Zelanda.
Non ho mai messo piede in una qualsiasi isola dell’Oceania.
Ma nonostante questa mia carenza, posso dire di aver consumato le scarpe in mezzo mondo. Posso dire che asfalto, sabbia, e fango hanno nel tempo logorato suole, rovinato tomaie, consunto stringhe.
Posso dire che il sole ha tatuato la forma delle mie vecchie Tewa sui miei piedi e che a distanza di 9 anni, i sandali ormai consumati con molte e troppe miglia sotto le suole, non riesco a cambiarli per non correre il rischio di rovinare i segni lasciati dal mio muovermi tra un luogo e l’altro del pianeta.
Ho preso molti aerei, dormito in svariati aeroporti.
Trascorso intere notti a bordo di pullman scintillanti con il condizionatore a palla.
E molti altri dove l’unica buona idea era quella di mettersi a dormire e illudersi che l’autista sapesse bene cosa stava facendo. Dove il mio pensiero non era: “arriverò tutto intero a destinazione?” ma uno ben più importante: al mattino avrei trovato un 7eleven per bere un pessimo caffè e dimenticare la notte appena trascorsa?
Ho percorso molta strada e non sono arrivato nemmeno a metà della mia immaginazione. Dall’Estremo Oriente al Sud America, percorrendo quasi tutta l’Africa. Dalle zone di guerra alle chiese dimenticate ma pur immensamente vive.
Da stregoni a curatrici sante, da semplici uomini a pessimi uomini. Da un mercato di schiavi nel XX secolo alla negazione dei diritti fondamentali in nazioni moderne.
Ho percorso molta strada ma non sono mai stato un viaggiatore.
Ho viaggiato, certo, ma mai per il gusto di farlo.
Ho viaggiato perché l’ho sempre ritenuto una condizione fondamentale del mio stare. Il mio luogo personale, a volte condiviso a volte privato.
Il viaggio – senza essere un viaggiatore – come condizione per pulirsi ed affrontare liberi i racconti che saprò in quel momento cogliere.
Il viaggio che obbliga alla costruzione di un luogo. Un luogo che è dentro di noi.