Da secoli molti induisti, da più parti dell’India, raggiungono la città sacra di Varanasi, o Kashi come era chiamata nell’antichità, per trascorrervi gli ultimi momenti della loro vita, credendo che morire qui porterà loro la moksha, la liberazione dal ciclo della reincarnazione.
Per alcuni, però, l’attesa può essere crudele, perchè corrisponde ad anni e anni di un’esistenza disumana.
È quello che accade a migliaia di vedove che hanno raggiunto Varanasi molti anni fa, per trovare la liberazione e la stanno ancora cercando. La maggior parte delle vedove indù, le più povere tra i poveri, arrivano nella città santa giovanissime: sono costrette a sposarsi che sono ancora delle bambine, con uomini di gran lunga più grandi di loro, ragion per cui dopo pochi anni di matrimonio, si ritrovano senza marito e con davanti a loro il peggiore dei destini.
La vedovanza in India è uno stato di morte sociale: le donne senza più marito non hanno più un’identità. Con il matrimonio la donna viene considerata in relazione al consorte diventando per sempre la sua metà eterna e indissolubile, come se fossero un unico corpo. Simbolicamente lei sarà sempre parte di lui, anche se è defunto, circostanza che le conferisce uno status di impurità permanente. Vengono derise, maltrattate, espulse dalla società, viste come un peso economico e portatrici di sfortuna, indotte a credere di essere causa della morte dei propri coniugi, sentendosi fallite nel ruolo di mogli e provando un forte senso di colpevolezza. Non hanno diritto a risposarsi, private di ogni loro bene, costrette a togliersi i sari colorati e vestirsi di bianco, simbolo di lutto. In alcune zone dalle tradizioni più conservatrici, sono anche obbligate a radersi i capelli. In tale stato vengono definitivamente allontanate dalla famiglia e date in pasto alla strada e alla miseria.
Nella maggior parte dei casi, per volontà degli stessi figli.
Queste donne non hanno più una vita degna di essere definita tale. Iniziano a vagabondare, vivendo di elemosina, cercando a piccoli passi di raggiungere le acque del Gange, sperando che la morte, qui, le liberi presto. Alcune, più fortunate, trovano rifugio negli ashram (comunità spirituali) dove, per una magra razione di cibo e un giaciglio su cui coricarsi, devono cantare e pregare per ore nei templi, oppure presso organizzazioni governative dove, in cambio di un minimo di assistenza, un tetto e una ciotola di riso, sono comunque costrette a elemosinare.
Incontrare queste donne, prosciugate dalla fame e dall’età, raminghe e ricurve su se stesse, diafane come ombre di un altro mondo, è straziante. Ti guardano silenziose e rassegnate a questo crudele destino, alcune convinte di meritarlo, e con un solo desiderio: morire a Varanasi per liberarsi di questa vita il prima possibile.
Ed ecco che Kashi, la città sacra dell’India, si rivela porta del paradiso per molti induisti ma un inferno in terra per queste donne, vedove senza colpa.