Ci sono angoli di strada che paiono vuoti. Appartengono solo alla città. Ma qualche volta no. Nell’arco del giorno e della notte si trasformano, per tornare silenziosi, uguali a sempre. Non hanno nome, non hanno insegne. Esistono per alcune ore, poi scompaiono, tornano e scompaiono ancora.
A Nong Khai – come in molti altri luoghi – ce ne sono molti. Cambiano già al mattino presto, insieme alla luce, a volte anche prima. Una baracca, un carretto. Montati nel silenzio. Un fornello, qualche sgabello di plastica colorata, così bassi che pare di tornare bambini. Forse è quel senso di non voler disturbare a volerli così bassi. Con le ginocchia in faccia.



Al mattino il caffè è dolce, molte volte ghiacciato. Il riso appiccicoso è tenuto al caldo. Qualcuno si ferma dieci minuti, qualcuno meno. Si mangia seduti sul bordo del marciapiede, con lo sguardo già rivolto altrove.
I bambini, con la divisa di scuola e il volto ancora assonnato, sembrano ricercare i sogni della notte nella zuppa che stringono gelosamente tra le mani. Gli adulti pure.
Poi tutto viene smontato. Il suolo spazzato con cura. L’angolo torna vuoto. Come se nulla fosse accaduto. Tornano i passi dove prima c’erano solo sgabelli bassi e colorati. E zuppe fumanti.


A metà giornata ricompare, ma è un altro luogo. Un’altra baracca, altre mani, altri odori.
Le persone arrivano e non scendono nemmeno dal loro scooter. Sacchetti di plastica rapidamente riempiti e richiusi da un piccolo elastico. Un gesto rapido, sapiente, frutto di mille mila sacchetti pieni d’aria e di cibo chiusi nella maestria di un gesto che segna un tempo che non va sprecato ma semplicemente usato. Mani che si muovono nell’aria come una danza. Accompagnate dal sorriso. Sempre. Da chi serve e da chi è servito.
E poi, dopo poche ore e centinaia di sacchetti gonfi, tutto scompare. Ancora una volta. E una volta ancora. Non restano segni. La strada assorbe tutto: le voci, il vapore, le pause. Di nuovo il vuoto. Polvere sollevata da qualche motorino. Un’auto che passa senza rallentare.
Un angolo di strada.



Ma è alla sera che tutto cambia. Il ritmo, le luci, cambiano le voci. L’angolo sembra diventare più largo. I tavoli si moltiplicano, le sedie occupano spazio. La convivialità si allunga, si parla.
Le luci sono calde, imperfette. Qualcuno ride, qualcuno aspetta. Il tempo si distende, come se non avesse fretta di andarsene. Anche i cani sono rilassati, fermi al bordo della baracca sembrano avventori privilegiati: cosa vuoi? Il solito grazie. Bau.
Giovani coppie nel loro primo appuntamento, disorientati turisti con lo smartphone in mano che cercano di tradurre senza successo una lingua incomprensibile. In Isaan anche la cucina sembra avere un sapore primordiale. Semplice. E non serve sapere, basta prendere quello che la baracca offre: sarà certamente un’esperienza che non finirà sui social ma resterà nel ricordo.

E poi arriva la notte. Arriva sempre, anche nelle storie più belle.
Restano le tracce di ciò che c’è stato. Rimangono gli odori e qualche piccola ciotola per quell’anima a quattro zampe attardata in qualche altro angolo. I cani passano, annusano, cercano. L’angolo non è più per le persone, ma conserva ancora la loro traccia.
All’alba tutto ricomincia.
Stesso spazio, stessa polvere.
Eppure ogni volta diverso.
Sono luoghi che non trattengono nulla, ma ricordano ogni cosa. Se potessero parlare non racconterebbero storie straordinarie. Racconterebbero semplicemente la vita che passa, a volte ritorna, a volte no. A volte ritorna e cambia forma. Senza chiedere di essere guardata.