Diari dalla Cambogia | Mondulkiri, 03 settembre 2019
Stiamo giungendo alla fine di questo tempo che abbiamo impiegato per scoprire e provare a vivere la Cambogia. Abbiamo testardamente scelto di farlo fuori dalle rotte turistiche. Ci siamo lasciati alle spalle molte (certamente tutte) le attrazioni di questo paese che consumano l’inchiostro nelle pagine delle guide di viaggio: Angkor Wat, Siem Reap, il Tomle Sap, Banteay Srei, e via discorrendo.
Sappiamo pure molto bene che non avremmo dialogo con chi c’è già stato con un contratto GrandiViaggi gelosamente custodito nel suo diario.
E sappiamo anche molto bene che, il nostro, non è un merito.
Semplicemente è il nostro lavoro, quello che abbiamo sentito e scelto di fare e che anche questa permanenza in Cambogia è il frutto di una scelta: quella di girare il mondo e raccontarlo vivendolo in prima persona, senza i filtri e i consigli di un’organizzazione turistica, con la consapevolezza che avremmo anche potuto fare un viaggio a vuoto o, semplicemente, non capire nulla di ciò che avremmo visto e vissuto. Un viaggio, questo e tutti gli altri, basato sull’incontro con le persone ancor prima che con il luogo. Con la ricerca del dialogo molto prima di porre domande.
Gli incontri: il privilegio del (foto)reporter
È il lavoro del (foto)reporter, è il mio lavoro e quello di altri, ed è il mestiere più bello al mondo perché ti obbliga a guardare e ti permette di non giudicare.
È un mestiere fatto d’incontri, di relazioni con le persone e con gli ambienti, con i fatti e gli accadimenti, con il mondo che si conosce e con quello che si trasforma.
Ma non è solo questo, è anche molto di più: è aver trovato la propria posizione nel mondo e, per una sorta di riconoscenza, usare la tua fotografia e le storie che vivi e raccogli per mostrare che, nonostante le mille miserie, il mondo – fatto di individui e dei loro ambienti – è un luogo ancora da scoprire, capace di meravigliare.
Un luogo di cambi e di scambi, di dialoghi non necessariamente parlati nello stesso idioma.
Trascorri quasi 5 ore in un pulmino con più di 20 persone tra contadini, donne con il velo, ragazzi in abito e scarpe di ginnastica, operai con la zappa appresso. Nessuno parla la tua lingua ma ognuno si rivolge a te mettendoti al loro pari. Qualcuno ti offre l’acqua, qualcuno un distillato di riso dalla gradazione criminale, un altro qualche larva secca comprata lungo la strada per fermare i buchi allo stomaco.
E in quegli istanti, nonostante la stanchezza, il caldo, la puzza, la voglia di arrivare, ti accorgi che queste tue sensazioni sono le loro sensazioni perché – pur se abituati (forse) – sudano anche loro, sono stanchi anche loro, vogliono arrivare anche loro, e anche tu puzzi. E loro lo sentono.
Ma, nonostante tutto questo, quel posto, in quell’istante, è il posto dove vuoi essere. E non ti viene in mente null’altro che stare lì perché è lì che hai scelto di stare.
Fotografare non è un diritto, ma un dono
A volte mi chiedo come potrei comportarmi se fossi io il soggetto di uno scatto di un fotografo in strada. Se nelle nostre luminose, ordinate e organizzate città, mi arrivasse un tipo, distraendomi dai miei pensieri e dalla educata fretta che tendiamo a trascinare sempre con noi anche se non abbiamo nulla da fare, e mi facesse perdere quel tempo prezioso che riteniamo di non avere mai per chiedermi un ritratto. “A volte mi chiedo come mi comporterei” e la trovo una gran bella domanda.
E non possiedo una gran bella risposta.
Con una macchina fotografica in mano, NOI spesso riteniamo che la fotografia sia un dovere o, addirittura, un diritto. Nel mentre la fotografia è semplicemente un dono. Un dono che riceviamo.
È la concessione di un frammento di vita, e NOI, come fotoreporter, abbiamo il dovere di rendere quell’istante degno dell’omaggio che stiamo ricevendo. Saper riconoscere, umilmente, il privilegio dell’incontro.
Un incontro speciale
Parlando di incontri casuali e fortuiti, a Phnom Penh ho avuto il privilegio di incontrare e conoscere una persona “speciale”, dalla serenità contagiosa e dalla disponibilità genuina: Francesco.
Ci siamo scritti via email prima della mia partenza pur non essendoci mai incontrati o conosciuti di persona prima: eravamo un mero profilo tra i molti contatti nel calderone dei social network.
A lui va un ringraziamento particolare, per tutto ciò che è, senza alcun timore di mostrarlo.
Grazie Francesco!