Volevo fotografare i gesti perché il gesto mostra e spiega la vita anche quando le parole non ci sono o non traducono. Perché il gesto è il veicolo delle intenzioni. Conosce le increspazioni del timore, le contrazioni della sofferenza e del dolore, le rughe della stanchezza e della speranza finita, la timidezza degli indifesi, l’aggressività di chi fronteggia la sopravvivenza, l’angoscia della debolezza.
Io volevo fotografare i gesti, mentre ora cerco di ricordare e di farvi vedere quello che non ho fotografato.
Dove comincia il mondo
È a Benares che Shiva ha deciso di vivere ed è qui che il mondo è cominciato; qui i crocevia – i tirthas – sono sacri. Ma tutta Varanasi è un crocevia tra questo e l’altro mondo e tutto il tempo è qui e forse anche tutto lo spazio… una città mandala, un cosmogramma che contiene tutti i cosmi. E in questa città convivono la frenesia del muoversi, caricare e scaricare, esporre comprare e vendere e la claustrofobia dei vicoli in cui questo si svolge. A volte così stretti che a mala pena due persone riescono a stare affiancate.
Eppure nei vicoli c’è sempre spazio: per le donne sfavillanti nei sari di colori a buon mercato, per le bancarelle di ogni cosa ove i venditori riordinano e spolverano mercanzie, a fare montagne di pallide arance, tagliare colli a polli dagli occhi curiosi, pulire pesci ingrassati nel Gange.
Spazio per uomini magri che ristagnano occupati a rimanere accucciati o semi sdraiati con le braccia come cuscini, salvo levarsi improvvisi quando si prospetta una qualche possibilità di vendita; per moto rombanti di accelerazioni improvvise, a guadagnare un metro e svoltare brusche e sincrone di passeggeri e carico di ceste, sacchi, telefonino e casco in precario equilibrio. Spazio per mendicanti che agitano ciotole vuote, con qualche chicco di riso e una rara moneta. Mentre alcuni senza neppur la ciotola e altri senza neppure le mani.
I gesti dei bambini che hanno un’età continua dai pochi anni a lanciare palle per chi ha una mazza da cricket e far volare i minuscoli aquiloni a quando sono già a mendicare rupie e a offrirti una barca, a venderti una puja, a stendere velocissimi il bucato che i dhobi hanno appena finito di addomesticare, malmenandolo sui muri inclinati del ghat, alla fine coperti di teli bianchi e di altri a colori sgargianti, forse non più puliti di prima ma certo sacralizzati nell’acqua del Gange.
E il muoversi lento del bambino preposto ai bufali lungo il ghat, vanno su e giù e vanno al fiume, si inginocchiano dentro o si sdraiano dopo aver pitturato l’aria con la coda intrisa di merda e mangiato fogli di carta di cemento… forse non hanno mai saputo che esiste l’erba o nemmeno cosa sia e per loro la prateria è il cemento dei gradini.
Ogni tanto li picchia con un bastone questi bufali sonnacchiosi e indifferenti, felici di masticare i resti dei garofani e brucare la propria ombra. O alla sera sul Dashaswamedh a vendere i lumini galleggianti dicendo tutti le stesse parole… 5 rupie, padre, madre, fratello, sorella, karma buono, e ne compriamo un paio – Federica ed io – per vederli allontanare ballonzolando, sperando che non si rovescino, per poter avere un buon futuro e fare una buona foto. Maree di bambini che sono immessi nella vita più presto di quanto non debbano.