Chi pensa all’India pensa alla spiritualità. Immagina santoni dalle tuniche per lo più arancioni, templi affollati di gente, preghiere ripetute ad alta voce in una lingua ignota che sa di Oriente, uomini che si riversano nel Gange per purificarsi. Non si conoscono le motivazioni del perché tutto ciò accada. Si sa che esiste, in una terra molto lontana, non solo geograficamente ma anche temporalmente. Tanto che quando si mette piede in India per la prima volta, è necessario tirarsi un pizzicotto per convincersi che non si stia sognando. A guardare più da vicino, il carattere mistico e ancestrale dell’India dei fachiri appare come un ricordo fiabesco nelle metropoli ormai frenetiche e fagocitate da pratiche consumistiche.
Sebbene quella spiritualità pare vacillare alla mercé del progresso tecnologico e del secolarismo, il suo retaggio è ben insediato in un evento che sopravvive a secoli di leggende e credenze. Assistere al pellegrinaggio induista più grande al mondo, il Kumbh Mela, è indispensabile per esorcizzare ogni surrogato di religiosità e lasciarsi cullare tra le braccia travolgenti della fede.
È meraviglioso il potere di una simile fede, che fa sì che moltitudini e moltitudini di persone deboli, anziane, giovani, fragili intraprendano senza esitazione né lamentela alcuna un viaggio così incredibile, sopportandone i disagi senza protestare. Lo si fa per amore o per paura: non so quale dei due. Non conta quale sia l’impulso, l’atto che ne risulta supera l’immaginazione, ed è meraviglioso per la nostra gente, noi freddi bianchi. – Così scrisse Mark Twain, nel 1895, dopo aver assistito al Kumbh Mela
In India, tra fede e leggenda
Un pellegrinaggio di massa senza eguali verso i quattro fiumi sacri – il Gange a Varanasi, il Godavari a Nashik, lo Shipra a Ujjain e il Sangam ad Allahbad (recentemente battezzata col nome di Prayagraj). Si ripete così ogni 3 anni, a rotazione in ognuna delle città appena citate, la festività del Kumbh Mela, alla quale accorrono asceti da ogni angolo dell’India per rendere omaggio alla leggendaria urna (kumbh) trasportata in volo da Vishnu e contenente gocce di acqua di vita eterna, l’Amrita.
Seppur leggenda, è sorprendente il modo in cui le gocce di tale elisir, cadute nelle acque dei fiumi sacri, attirano milioni di asceti e pellegrini in attesa del bramato bagno purificatorio calcolato secondo congiunzioni astrali.
Nel giorno in cui Giove e il Sole si trovano nel segno del Leone, il 29 agosto 2015, l’alba sulle sponde del fiume Godavari a Nashik è attesa con trepidazione da fiumane di guru e sadhu dalle tuniche bianche, rosse, gialle, arancioni sgargianti e fronti marchiate da simboli identificativi della loro appartenenza religiosa. Insieme a loro, folle di bambini, adulti, anziani, condividono il sentimento mistico e contemplativo della fede.
Un rituale lento e goliardico, in pieno stile celebrativo induista. Il silenzio e la brezza della notte indiana si fanno da parte e cedono il posto al fragore della musica proveniente da chiassose casse apposte su rimorchi nel primo tepore mattutino che anticipa il calore della giornata. Si muovono paralleli alla corsa forsennata i Naga Sadhus, che sono i primi a immergersi, poi gli Yogi – maestri dello yoga –, e i Naga Baba – guerrieri asceti nudi e coperti di cenere –, portando in mano il tridente di Shiva. Giungono al fiume trasportati su baldacchini ricoperti di ghirlande di fiori e urlando scalmanati la loro liberazione e gioia per il karma che finalmente si purifica. L’ordine delle abluzioni nel fiume è preciso nonostante il caos frastornante della notte insonne e degli sciami di credenti anestetizzati dalla forza dirompente della religiosità atavica. Quella stessa religione di 33 milioni di Dèi ai quali aggrapparsi e affidare le infinite speranze, aspettative, esigenze e sofferenze di un popolo di un miliardo e 300 milioni di persone che non vuole annegare.
Una dicotomia dilaniante che crea profonde crepe individuali e collettive tra l’impazienza di un domani illuminato dal progresso e l’attaccamento a rituali antichi come la notte dei tempi. Vivere la notte del Kumbh Mela equivale all’essere testimoni di questo limbo comune ai milioni di indiani che vi partecipano: la sospensione tra il vecchio e il nuovo, il peccato e la redenzione.