Ci eravamo fermati a Comodoro Rivadavia per la notte, passata poi all’addiaccio tra le navate e l’altare della chiesa di San Cayetano, ospiti della comunità locale. Abel, un uomo dall’età indefinita, era lì quando siamo arrivati ormai con le ombre che si allungavano sulla strada, che quel giorno sembrava non finire più. Lui e la sua banda di cani sono venuti a salutarci. Ci avevano visto arrivare dalla baracchetta di giornali situata in un’aiuola tra due strade, proprio davanti alla chiesa, dove stavano seduti tutti insieme.
Abel e i suoi cani erano lì anche la mattina dopo, come se la notte non fosse mai arrivata. Parlava uno spagnolo semi incomprensibile ma dai grandi gesti eloquenti. Ci ha raccontato con orgoglio dei suoi cani. «Chi è nemico di uno di loro è anche nemico mio» ci ha detto serio. Gli occhi, però, gli si sono inumiditi poco dopo, quando ha nominato uno di loro che era venuto a mancare qualche tempo fa. Abel vende giornali e canta. Ha una voce potente, la puoi sentire nell’aria da un capo all’altro del barrio. Quando è arrivato il momento di ripartire, ci ha dedicato una canzone. La voce era salda ma gli occhi erano di nuovo umidi. Poco prima, aveva regalato ad alcuni di noi uno di quei piccoli calendari che i negozi di quartiere realizzano come pubblicità. L’anno non era importante, non c’è neanche scritto. Era la foto sull’altro lato la cosa preziosa. Prima di darcelo, ci ha guardati in faccia uno a uno, come per scrutare dentro di noi e scegliere con cura quale immagine dare a chi.
Nelle mie mani ha messo una scena che raffigura un paesaggio, alberi e una cascina, con la scritta «A cielo abierto» [sotto il cielo aperto]. E non avrebbe potuto intuire meglio che quella, tra le immagini che aveva, era l’unica che potevo indossare con disinvoltura. Poco dopo, di nuovo con occhi umidi e luccicanti, ci ha salutato tra gli abbai della sua famiglia di strada. Ancora adesso, se chiudo gli occhi, sento il rumore del motore e vedo la mano di Abel agitarsi nel calore del primo pomeriggio, in un gesto che voleva esser più un arrivederci che un addio.
Le storie che voglio raccontare
Sono tornata da qualche mese da un viaggio memorabile nel Sud del mondo e l’ho fatto in un paese in lockdown. Sarà per questo che mi è tornato tra le mani un libro che avevo letto svariati anni fa: Ultime notizie dal Sud, di Luis Sepúlveda, con fotografie di Daniel Mordzinski. Ho iniziato a rileggerlo senza un ordine preciso, semplicemente sfogliando quelle pagine dense di storie e lasciando che queste si raccontassero in ordine sparso: La signora dei miracoli, il Tano, il Folletto, l’ultimo viaggio del Patagonia Express…
«Tutte le storie che seguono sono senza dubbio circondate dall’aura dell’inesorabilmente perduto, per via di quell’‘inventario delle perdite’ di cui parlava Osvaldo Soriano, il prezzo crudele della nostra epoca. Mentre viaggiavamo, senza meta, senza tempi prestabiliti, senza bussola né altre trappole, quella formidabile meccanica della vita che riunisce sempre chi si assomiglia ci ha portato a incontrare molti dei ‘barbari’ a cui allude la poesia di Kostantinos Kavafis. I loro sogni erano temibili, perciò sono stati annientati o respinti in territori estremi appositamente prescelti, ma hanno continuato lo stesso a seminare l’insonnia tra i signori del potere, che sempre più ossessionati dal pericolo del loro ritorno hanno ordinato alle banche di screditarli, e a dei completi mentecatti di scrivere libri sull’‘idiozia dei barbari’. E i ‘barbari’ hanno risposto piantando boschi, immaginando un’alternativa alla disumanizzazione del sistema imperante, organizzando la vita, perché vivere fosse un po’ più che un verbo.»
– Ultime notizie dal Sud, Luis Sepúlveda, p. 14
Contemporaneamente, un altro libro mi è saltato in mano: Ribelli! scritto da Pino Cacucci che nella vita reale è amico, hermano, di Luis Sepúlveda – e uso volutamente il tempo presente anche se il ‘cileno errante‘ ci ha purtroppo lasciati qualche settimana fa, perché alcuni legami trascendono la vita, o la morte.
«I ribelli che ho sempre amato sono inguaribili utopisti, animati da un’utopia con la minuscola: non quella dei grandi ideali con cui cambiare il mondo e affermare la società perfetta – rischiando così di contribuire al peggiore degli incubi, cioè un sistema orwellianamente totalitario –, ma l’utopia dell’istintivo, insopprimibile bisogno di ribellarsi. E anche quando la sconfitta appare ormai ineluttabile, quando la realtà vorrebbe imporre loro l’accettazione di un compromesso per ‘salvare il salvabile’, continuano a battersi per quella che Victor Serge definiva ‘l’evasione impossibile’. Essere consci che in questo mondo non c’è possibilità di evadere non è bastato a convincerli ad arrendersi.» – Ribelli!, Pino Cacucci, p. 9
Queste sono le storie che voglio raccontare in DooG Reporter, storie di ‘barbari’ e di ribelli, dispacci da un mondo che in un tempo indefinito non ci sarà più ma che merita di essere conosciuto.