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6 gennaio 2025 – Anni fa mia mamma aveva letto da qualche parte una frase che l’aveva particolarmente colpita. Nessuno può fermare chi viaggia a piedi. Mi ricordo che avevamo preparato tanti foglietti di carta rettangolari e avevamo scritto con colori diversi su ognuno una lettera, per poi appenderli con delle mollettine sul muro della scala a chiocciola della casa dove sono cresciuta.
Quella frase mi è tornata in mente adesso, mentre mi trovo a Villa O’Higgins, un perfetto cul de sac dove le strade che vanno verso sud finiscono.
Una volta che arriva qui, uno può fare solo due cose: tornare indietro o imbarcarsi su un traghetto che porta in una località che mi stupisce anche solo il fatto che abbia un nome sulla carta, a 21 km dalla frontiera con l’Argentina. Su questa barca si viaggia solo a piedi o in bici, a bordo ti danno un fantastico caffè di benvenuto per alleviare le infinite ore di cammino che ti aspettano, e quando si scende si ha la sensazione che qualcuno da qualche parte stia ridacchiando: hai voluto la bicicletta? Ora pedala.
Non avere una macchina è visto dalla maggior parte delle persone, tra cui molte di quelle che mi hanno dato un passaggio (e anche da me nei giorni in cui l’autostop va male e penso solo come arrivare al prossimo concessionario) come un fattore limitante. Non puoi andare dove vuoi, quando vuoi. Parleremo un’altra volta del fatto che ci sono anche lati positivi, perchè in effetti questo è uno dei pochi casi in cui avere una macchina è un fattore limitante, e si prosegue solo a piedi.
Appena metto piede sul molo di sbarco inizia a piovigginare. Niente di stupefacente, era perfettamente annunciato dal meteo, ma il traghetto non è una scienza esatta, è partito oggi e poi chissà. Spero che sia una nuvola transitoria e inizio a camminare con le mie due compagne di sventura: siamo tra le prime ad arrivare alla stazione di frontiera cilena, appena un chilometro dopo. Qui il problema maggiore è scartare il passaporto dai molteplici strati di plastica con cui ho cercato di proteggerlo dalla pioggia, poi una stampa e via, zaino in spalla, mancano ancora 19 chilometri.
Ognuna stretta nel suo cappuccio, ho molto tempo per pensare nelle successive 6 ore. Una delle prime cose che mi vengono in mente, sentendo la zavorra che mi preme sulle ossa delle clavicole e del bacino, è che mi sto portando sulle spalle tutte le cose che mi servono per vivere, potenzialmente per sempre. Per contenere tutti i vestiti che ho a casa non credo che ne basterebbero cinque, di questi zaini, però adesso ci sta entrando tutto quello che mi permette di tirare avanti. A parte gli sci, quelli sono fuori peso massimo e non credo di poter sopravvivere senza.
Odio la pioggia. Dopo mezz’ora ho acqua che mi cola da tutte le parti e mi sento un’idiota per essermi ficcata nell’ennesima situazione che definirei faticosa, perlomeno. Non ho molta altra scelta che continuare a camminare, e sperare che il tipo che ho pagato per portarmi lo zaino dopo i primi 5 chilometri non lo lasci sotto l’acqua. A un certo punto perdo un po’ il senso dello spazio, e penso che magari lo zaino l’ho già passato e mi toccherà tornare indietro a prenderlo aggiungendo chilometri ai chilometri. Quando lo vedo incartato in un paio di sacchi sotto il cartello che dice ‘Repubblica Argentina’ un senso di sollievo si sparge ovunque tra petto e stomaco, le uniche a non essere contente sono le spalle.
In Europa non siamo abituati a pensare alle frontiere come ostacoli da superare, siamo i benvenuti più o meno ovunque andiamo. Mi ricordo come fosse ora la volta che ero su un treno transfrontaliero e ho avuto la sgradevole sensazione che la carta di identità con cui giro tutta Europa valesse molto di più del passaporto dei tipi di colore del vagone accanto, che la polizia stava facendo scendere.
Questa frontiera tra il Cile e l’Argentina la passo a piedi come un bandito, attraversando un bosco allagato d’acqua, la pioggia è così fine che nemmeno la si sente cadere. E ho proprio la sensazione che il confine esista, che sto attraversando una linea invisibile ma potente tra due Paesi diversi. Il poliziotto non si scompone quando una goccia dell’acqua che ho addosso cade sulla scrivania dove sta armeggiando con i timbri, mi chiede la data di nascita come a conferma che sia proprio io e sdrammatizzo chiedendo se ha discendenza italiana (come quasi tutti gli argentini, pare).
La notte la passiamo accampate in una baracca fuori dalla stazione di controllo, 14 ore di freddo e umido che quando mi sveglio mi sembra che le ossa abbiano fatto a botte tra loro. Ci mettiamo un’altra giornata per camminare i 12 chilometri che ci separano dalla strada, quella asfaltata e con le macchine che equivale alla civiltà. E in definitiva direi che ci vogliono tempo e spirito di sopportazione, varie volte è un po’ uno sbattimento, però quando sbuchi in paese e butti lo zaino per terra dopo tutta questa avventura ti senti invincibile. Ti senti che nessuno può fermare chi viaggia a piedi.