Il posto dove viviamo, un luogo che ci fa sentire al sicuro e che racconta di chi lo abita, può diventare una prigione, come nel periodo vissuto durante il lockdown per la Covid-19. Al contempo, però, è anche un luogo di riparo, un rifugio; ma può anche essere un lusso.
Lo spazio dell’abitare assume in ogni caso una dimensione molto intima, grazie a quelle che sono le abitudini del quotidiano: i suoni, gli odori, gli spazi, gli oggetti. Ogni cosa è un indizio di un racconto che narra di chi lo abita.
Jonas Bendiksen nel suo The Place We Live racconta di luoghi molto diversi tra loro, dagli slum di Nairobi, alle baraccopoli di Mumbai, da quelli di Jakarta ai barrio di Caracas. Come suggerisce il titolo, il racconto è incentrato sul tema della casa, non tanto come luogo in sé, ma piuttosto come associazione tra una persona e un luogo che, plasmato da essa, ne diventa un’estensione. Il racconto ci porta appunto fin dentro quegli spazi intimi e riservati di abitazioni molto umili se non poverissime delle persone che lo hanno ospitato. Questi uomini e queste donne sono ritratti all’interno delle loro abitazioni, circondate dai loro oggetti. Il modo in cui vengono ritratte, completamente avvolte nel loro ambiente, è estremamente immersivo. Il libro stesso si apre in quattro pagine nelle parti che ritraggono gli interni e le foto di tutta la casa sono fuse, stanza dopo stanza, facendoci immergere ancor più nell’intimità dello spazio. Non si può fare a meno di osservare a lungo queste fotografie, immaginando la vita che scorre nei gesti del quotidiano, e accade che più guardiamo queste foto più queste persone le conosciamo un po’ di più. Bendiksen ci racconta le loro storie.
Che cos’è casa?
Il libro ha un’atmosfera particolare, le composizioni sono molto equilibrate e la luce è sempre fioca. Le immagini all’esterno sono realizzate di notte o, se di giorno, con celi plumbei; dentro a illuminare i volti sono le aperture dall’esterno o, se assenti, lo fanno le deboli luci delle abitazioni. Così nel complesso il libro assume un andamento molto lento ed è come se sommessamente ci ricordasse qualcosa.
Perché in fondo la casa è malinconia, è un ricordo di qualcosa. Bendiksen traccia una linea che congiunge l’abitare di questi luoghi estremamente poveri e lontani a noi. Sì perché in quella massa di baracche e casupole non c’è solo criminalità e miseria, ma un quotidiano fatto di lavoro, bambini che fanno i compiti, che si riuniscono in sette davanti a una Playstation o che giocano a pallone, c’è un matrimonio e l’attesa della festa.
The Place We Live, il titolo scelto, suggerisce un’inclusività che ci riguarda, anche se così lontani dai luoghi rappresentati dall’autore, anche se, da privilegiati, come sostiene Philip Gourevitch, editor di Paris Review, possiamo sfogliare le pagine di un’opera che costa quanto un mese se non un anno di stipendio di queste persone, ecco che quelle sensazioni di familiarità, confidenza, intimità che emergono, sono appunto l’estremità di quella linea tracciata dall’autore che parte dalla nostra idea di “casa” e arriva alla loro, perché è la stessa.