Sono un lettore. Anche se non assiduo quanto realmente vorrei.
Sono cresciuto con i libri e non “sui” libri. Libri di avventura, di epiche imprese e gesta eroiche.
Come un novello Achille che, forse già conscio della sua breve esistenza, sprezzava il pericolo che la vita gli metteva davanti. O come un mancato Corto Maltese, all’incarnarsi di dell’inquietudine e di quel senso di non-apparenza a me tanto caro. Con il gusto di immergersi in una quotidianità che fa dell’altro un’identità nella quale ritrovarsi. Per poi riperdersi.
Come un giro di giostra: cambiano i clienti ma il giro, e la musica, rimane. Quella, e quella ancora. Uguale ma sempre diversa. Un altro giro ancora… e via daccapo, sempre come fosse la prima volta.
Forse sarà anche per questo motivo che giungere a Ho Chi Minh City alla sera è come se fosse un “rientro a casa”. Di una città che tengo nei ricordi preziosi dei nomi letti da bimbo sui libri di avventura. Ma conosciuta e trattenuta con gelosia con il nome di Saigon.
Ma è nel mattino presto, nei piccoli, colorati e invitanti, sporchi e bagnati vicoli del Distretto 1 che una scala, una semplice scala che porta a qualche piano abitato dalla gente del posto – quello dove topi e persone condividono il sapersi guardare al buio – che un mondo di ricordi, commemorazione e orgoglio di un popolo (o due popoli) si apre già dai primi gradini di quella scala malconcia.
Poster… e saliti le due rampe di scale con il timore di disturbare qualcuno… quel qualcuno, senza una parola ma con il sorriso che si riserva al foresto che merita il tuo tempo, l’orgoglio e il ricordo di un popolo – o due popoli – si mostra nella sua più semplice e colorata rappresentazione.
Poster… o Propaganda. L’importante è crederci, immedesimarsi, inorgoglirsi.
Marcare un’idea. Scegli tu se poi è quella che ti convince.
Ma, in quel momento e in quell’istante, puoi scegliere se – e in cosa – credere.
E adesso… lo puoi fare da uomo libero.
Saigon, la città della pioggia, mi ha dato così il suo buongiorno.