Siamo a Ho Chi Minh City da meno di 48 ore e già la città ci ha mostrato quello che tutti sanno: infinite code di motorini dal clacson facile, impossibili attraversamenti pedonali, zuppe di noodles dall’inconfondibile profumo di coriandolo, grattacieli altissimi attorniati da casette sgarruppate, luci, luci e ancora luci. C’è però qualcosa in più che abbiamo avuto la fortuna di conoscere. Qualcosa che non si vede online ma che ti fa capire un po’ quella famosa “pancia” di un paese. E ti dice che c’è molto di più se ti prendi il tempo di attraversare i luoghi comuni.
Mentre camminiamo in un parco cittadino del distretto 1, ci ferma un gruppetto di ragazze. Sono in tre. Avranno vent’anni. «Do you speak English? Parlate inglese?» ci chiedono con un po’ di timidezza. Rispondiamo di sì e un sorriso scioglie ogni imbarazzo. Una di loro ci dice che sono delle studentesse universitarie. Come compito di metà semestre devono fare delle interviste in inglese, la loro materia di studio. «Non sono domande difficili» ci rassicura. «E ci impiegheremo solo pochi minuti».
Accettiamo di buon grado, anche perché sarebbe stato impossibile dire di no. In pochi secondi le ragazze organizzano il setting. Sì perché si tratta di un’intervista video. Una di loro mi fa accomodare su una panchina del parco e si siede di fianco. Tra le mani ha un foglietto stropicciato con scritte le domande, e lo smartphone per registrare l’audio. Un’altra si posiziona davanti alla panchina pronta a filmare tutto, sempre con lo smartphone. La terza tiene in mano una borsa di cartone e con un ombrello fa ombra alla ragazza che fa il video.
Uno, Due Tre… AZIONE !!
Si parla di bullismo nelle scuole. Ho mai subito atti di bullismo quando ero una studentessa? Che cos’è secondo me il bullismo? È cambiato oggi rispetto a un tempo? Cosa spinge una persona a compiere atti di bullismo? Cosa possono fare genitori e insegnanti per prevenire gli atti di bullismo?
Alla faccia delle domande semplici, mi dico. Contemporaneamente, però, mi fa effetto pensare di essere in un parco a Ho Chi Minh City e parlare di bullismo nelle scuole. In una città dove agli angoli delle strade trovi ancora chi ti fa le scarpe su misura disegnando la forma del tuo piede su un cartone, c’è anche una generazione che si interroga su problemi che anche tu conosci, pur abitando a quasi diecimila chilometri di distanza. Problemi globali, certo, ma che scioccamente non ti eri mai presa la briga di pensare che potevano esistere anche qui. Tra me e me trovo sempre la scusa del tempo. Non ce n’è mai abbastanza – penso, anche se in coscienza so che non è così. A colpirmi, però, c’è anche l’assoluta normalità del parlarne. Le ragazze non mi hanno chiesto da dove vengo, dando per scontato che, indipendentemente dalla mia provenienza, il bullismo sia comunque e dovunque un problema da affrontare.
Finita l’intervista, le ragazze ci ringraziano nuovamente. Poi, prima di salutarci, una di loro prende dalla borsa di cartone due dolcetti. «Sono dolci tipici di questa zona» mi dice. «Volevamo darveli per ringraziarvi del vostro tempo».
In una Ho Chi Minh City che corre sui motorini senza mai fermarsi ho avuto il privilegio di interrompere questa corsa e prendermi il tempo di riflettere su un aspetto che non avevo mai considerato prima. Ed è stata proprio quella gentilezza genuina di queste ragazze – che proprio perché genuina non costa nulla – a dare valore al tempo, mio e loro.