Nell’immaginario collettivo la figura del sacerdote ha una ben precisa delineazione. Medesimo caso quello del vescovo per il quale, probabilmente, l’idea è ancora più radicata e immobile. L’altolocato prelato è considerato ‘superiore’ al comune sacerdote anche per quel che riguarda i servizi da questo normalmente svolti. Il vescovo si mette in azione quasi esclusivamente per cerimonie ufficiali e di peso. Al quotidiano ci possono pensare i preti delle diverse parrocchie cittadine. Ma se le parrocchie non dovessero essere così tante e ancor meno dovessero essere i sacerdoti? E se il fabbisogno quotidiano non dovesse riuscire a essere coperto in modo adeguato? Cosa accadrebbe?
Con molta probabilità succederebbe quello che è avvenuto nella piccola cittadina zimbawese di Hwange dove la figura del sacerdote della parrocchia e del vescovo coincidono. È il caso di monsignor Luis Alberto Serrano, settantenne spagnolo da trent’anni in Zimbabwe, sacerdote e vescovo di Hwange.
Arrivato come semplice missionario ha fatto carriera sul campo. “Mi sono subito trovato a mio agio – spiega comodamente seduto dinnanzi ad una statua della madonna nel piccolo giardino della casa vescovile – tanto da non aver mai voluto mutare il rapporto con i miei parrocchiani. Sono tutte persone molto calorose e abbiamo reciprocamente visto l’uno negli altri dei punti di riferimento”.
A rafforzare questo legame ormai indissolubile ci ha pensato il difficile periodo della guerra che per 15 anni ha dilaniato il paese per l’indipendenza dai conquistatori inglesi, svoltasi dal 1964 al 1979.
La fine del conflitto portò al suffragio universale del 1979, dando inizio al dominio della maggioranza nera del paese. Le elezioni del 18 aprile 1980 posero fine al mandato britannico e segnarono l’inizio del regime di Robert Mugabe.
Mons. Alberto Serrano, vescovo di Hwange
È stato un periodo molto difficile – prosegue il porporato sorseggiando una fresca limonata ottenuta dagli agrumi direttamente coltivati – , come tutte le guerre. Accadeva di tutto. C’erano fuggitivi che cercavano riparo tra le nostre mura diverse volte controllate dai diversi eserciti. Da sacerdote cercavo di fare il mio meglio per stare vicino alla popolazione e dare essa una mano. Se possibile, nell’orrore del conflitto e della sua violenza, un piccolo lume che ha tenuta accesa la speranza che tutto sarebbe finito presto è stata la coesione delle persone. Nella difficoltà estrema è emersa prepotentemente la forza della fratellanza, del mutuo soccorso, dell’unione.
Purtroppo questo non è bastato ad evitare un vera e propria strage così come anni di terribile tragedia. Sarà per questo che mi piace il rapporto diretto con i mei parrocchiani che mantengo anche se ho cambiato ruolo.
E Monsignor Serrano non si tira mai indietro. Dalle messe domenicali alla processione di 16 chilometri svoltasi per celebrare la festa parrocchiale e vissuta senza paramenti ufficiali in mezzo ai fedeli. Ma non solo di missione vive Hwange. La cittadina offre agli abitanti anche un attrezzato ospedale, il St. Patrick Hospital, attrezzato per le cure mediche contro la malaria e di un reparto dedicato alle puerpere. Tuttavia è sempre la diocesi a preoccuparsi oltre dell’aspetto spirituale anche dell’intelletto dei ragazzi di Hwange e dei villaggi limitrofi offrendo istruzione. Di questo si occupa in modo particolare don Bruno, responsabile del progetto dell’istituto tecnico don Bosco, scuola superiore sorta poco fuori città.
“È fondamentale – spiega – dare una prospettiva a questi ragazzi. Molti di loro con grande sacrificio seguono la carriera scolastica ma si trovano poi senza sapere dove muovere i propri passi. Noi cerchiamo di dargli una possibilità, una prospettiva. Al momento siamo riusciti ad avviare alcuni corsi tecnici post diploma sia per ragazzi sia per ragazze. Si va da quello di informatica a quello di cucito passando attraverso quello di meccanica.
Le difficoltà non sono poche purtroppo, dalla scuola stessa, che non è ancora terminata per arrivare al materiale didattico. C’è poi il problema degli insegnanti, pochi e mal pagati, e quello dei collegamenti, ossia come far raggiungere la scuola a chi abita lontano. Molti dei nostri studenti seguono le lezioni una volta terminato di lavorare nei campi, in officine meccaniche o altrove. Noi non ci arrendiamo. Pur se molti finanziamenti sono venuti meno stiamo comunque cercando di raccogliere il denaro necessario per finire i lavori”.
Tutto questo si sviluppa in un clima di conciliazione e rispetto reciproco. La vita e la spiritualità cattolica ben si sono uniti e miscelati alle tradizioni locali che non vengono intaccate ma, anzi, valorizzate. Esempio ne è una piccola chiesa all’interno della casa sacerdotale poco lontano dall’istituto don Bosco. Qui l’altare, raffigurante motivi classicamente cattolici, si fonde con tecniche e fatture locali.
“È molto importante – dice ancora il sacerdote – non sradicare le tradizioni. Piuttosto vanno valorizzate e devono essere un arricchimento. Le decorazioni e la struttura della piccola cappella solo chi vive qui avrebbe potuto realizzarli”. Altro esempio di perfetto connubio sono le stesse cerimonie religiose in equilibrio tra rito canonico e danze locali. Così come l’offertorio intinto in ritmi africani.
Luis Alberto Serrano e don Bruno sono uno dei tanti esempi di missionari impegnati nel continente africano, adottati dalla popolazione al punto da fare proprio il detto di suor Clara, da cinquant’anni a Fatima Mission, sempre in Zimbabwe, “questo è il solo posto in cui voglio finire la mia vita. Se potessi tornare indietro rifarei esattamente questa scelta missionaria”.