Chantal Pinzi

Guajiros

Il reportage di Chantal Pinzi sui Guajiros, una delle ultime dieci comunità indio-americane, tra Colombia e Venezuela.
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Guajiros | Chantal Pinzi, ©2021

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Dip. di La Guajira, Colombia

Guajiros
Guajoris, Dep. de La Guajira, Colombia | Chantal Pinzi, ©2021

In via d’estinzione

Sabbia, sabbia e ancora sabbia. Lo sguardo prova ad andare oltre la linea che separa il cielo dalla terra, in cerca di uomini e donne, in uno dei territori più difficili per la sopravvivenza. Il sole a picco non risparmia neanche un centimetro quadrato di questa terra. Il deserto della Guajira, situato nella regione caraibica colombiana, è uno di quei luoghi che non appare ancora su Google Maps. Eppure da più di diecimila anni, nelle zone periferiche e marginali tra Colombia e Venezuela, sopravvive la tribù indigena wayuu, o guajiros, una delle ultime dieci comunità indio-americane, che oggi, aggredita dalla fame, vive una fase di progressiva estinzione nell’indifferenza istituzionale.

Guajoris, Dep. de La Guajira, Colombia | Chantal Pinzi, ©2021

Una terra ambita

“Le pallottole volavano in tutte le direzioni, entravano dalle finestre. Poi ci fu quell’urlo di aiuto che all’improvviso ruppe il silenzio assordante che segue sempre le esplosioni”, mi dice Alvaro José Miranda Leon, un abitante di Riohacha. Affacciato al balcone, indica la casa della vicina che egli stesso trasportò all’ospedale, mentre la donna si dissanguava nel retro della macchina, una notte del 1988. “Pallottole vaganti”, sussurra, perso ancora nel ricordo dell’orrore che si consumava regolarmente nelle strade del suo quartiere. Erano gli anni di piombo colombiani, sotto il dominio del Bloque Norte della Auc, responsabile di aver macchiato tutto il dipartimento con una scia di sangue, lacrime e terrore.

Quello dei guajiros è un popolo che nel corso dei secoli ha sopportato ogni tipo di violenza. Terra di oro, perle e schiavi: così veniva definita la Guajira nel ‘500, ai tempi di Nikolaus Federmann e dei suoi compagni conquistadores, i quali – in nome della presunta supremazia bianca e con l’auspicio di far germogliare la civiltà – cominciarono una lunga guerra di sterminio dei popoli nativi.

Più recentemente, invece, sono stati i narcotrafficanti e gli squadroni paramilitari colombiani a puntare gli occhi sul territorio guajiro e sul proficuo guadagno garantito dalla sua posizione strategica: da un lato l’immediato accesso al Mar dei Caraibi, dall’altro la frontiera con il Venezuela. Con un unico problema: un avversario non facile da battere. I wayuu, popolo guerriero, temprato dai diversi  tentativi di colonizzazione, organizzò infatti un importante e solida resistenza e in breve tempo il tasso di omicidi nella zona schizzò al massimo storico: 442 morti ogni 100mila abitanti.

Alvaro è la mia guida in territorio indigeno. Mi accompagna in terra guajira lungo un tragitto dal nome raccapricciante,“la caravana de la muerte”, lo stesso che i contrabbandieri di benzina venezuelana percorrono ogni notte, facendosi largo tra l’odore acre delle carcasse dei giganteschi camion scoppiati nell’oscurità. Tutt’ora si possono scorgere le navi mercantili dei narcos al largo della costa, scrutati dagli occhi attenti di alcuni pescatori wayuu, gli Apaalanchi.

Guajoris, Dep. de La Guajira, Colombia | Chantal Pinzi, ©2021

Terra e Acqua

Nella pesca, le urla strazianti dei gabbiani famelici e i pesci boccheggianti sulla sabbia fanno da cornice a un alternarsi di vita e morte, un ecosistema che è sopravvissuto a stento grazie alla complicità di ogni singolo anello che lo compone e che, adesso purtroppo, subisce le conseguenze di una profonda contaminazione del territorio. Per secoli, infatti, i Guajiros hanno cercato di perfezionare la loro tecnica di approvvigionamento, caratterizzata ancora oggi da piccole imbarcazioni di legno e dalla pesca a strascico. Senza scarpe e muniti di grosse reti, si addentrano nelle acque basse della laguna, trascinando i piedi per evitare di essere punti dalle grosse mante mimetizzate nel fondale. L’acqua torbida li avvolge. È solo attraverso l’esperienza che vengono guidati in direzione della preda: come se seguissero i passi di una danza tradizionale, lanciano con grazia la loro trappola letale nelle acque salmastre della laguna.

Terra e acqua sono gli elementi che racchiudono il principio della creazione, dell’armonia e della fecondità: vita e origine. La donna rappresenta la terra, mentre l’uomo è come la pioggia, con il compito di penetrare il suolo per renderlo fertile. Ma qui la pioggia non cade quasi mai e le poche fonti d’acqua sono state contaminate dalle multinazionali del settore minerario. Verso l’entroterra, a un’ora di distanza dal litorale orientale, è infatti presente la causa principale della crisi umanitaria in atto contro il popolo indigeno: El Cerrejón, la miniera di carbone a cielo aperto più grande al mondo.
In quest’area, riporta Human Rights Watch, il tasso di mortalità infantile è cinque volte superiore rispetto al resto del territorio nazionale e colpisce per il 27,9% i bambini sotto i cinque anni di età. Da questa regione proviene il 44,4% delle esportazioni di carbone del paese, gestite da tre colossi imprenditoriali del settore minerario: le aziende di Anglo American, BHP Billiton e Glencore Xstrata. Lo Stato ha agevolato lo sfruttamento del territorio, considerandolo necessario per lo sviluppo economico della zona. Risultato: devastazione ambientale, ingiustizia idrica e violazione dei diritti umani. 

Per gli Alijuna – come vengono chiamati dai nativi gli estranei, i non-wayuu – è impossibile capire appieno cosa significhi la manipolazione distruttiva del territorio. È impossibile soprattutto comprendere un popolo che si identifica in ogni elemento della natura, che vive in una connessione ancestrale con questi spazi. Ogni granello di sabbia che si attacca alla pelle, portato dall’indomabile vento del deserto, racchiude lo spirito e l’anima di un antenato. 

Guajiros
Guajoris, Dep. de La Guajira, Colombia | Chantal Pinzi, ©2021

Una cultura matriarcale

Insieme ad Alvaro facciamo ingresso nella Rancheria Piulaka, territorio del clan Epinayu, nella media Guajira. Piccole case costruite con argilla e pezzi di legno sono sparse qua e là. Le più benestanti hanno una facciata in cemento e, di solito, delle capre in cortile, status symbol di ricchezza. Uno degli anziani, coricato in un’amaca tessuta probabilmente dalle mani esili di qualche donna del villaggio, racconta alcuni miti sulla creazione. Il sole, la pioggia, la terra, l’oscurità, il vento sono gli elementi naturali che crearono, a loro immagine e somiglianza, il popolo guajiros.

La cultura wayuu è basata su una struttura sociale matriarcale. L’importanza della donna deriva dal peso che ha nell’educazione dei figli, nel mantenimento della coesione del clan e nel promuovere soluzioni pacifiche ai conflitti. È attraverso alcuni rituali come il páülüjüt, che, alle prime mestruazioni, le giovani donne vengono confinate nelle proprie abitazioni per un minimo di dodici lune, affinché costruiscano la loro identità femminile grazie agli insegnamenti trasmessi dalle più anziane. Rispetto, responsabilità, onestà e amore sono i valori fondamentali per diventare la futura guida morale del clan: si capisce allora che indebolire la donna significa spezzare la spina dorsale che sostiene il popolo, destabilizzando così la forza della resistenza indigena. Un aspetto che chi cerca di piegare il popolo guajiro ha imparato bene, tant’è che le vittime di violenza da parte della criminalità colombiana sono spesso donne.

Sono sempre le donne a custodire anche la ritualità legata all’arte della tessitura, una forma sacra di scrittura che cattura la tradizione orale: tessere significa tornare ai tempi delle origini, intrecciare i fili del mondo e mostrare la struttura del cosmo. I manufatti tessili delle donne guajire – coloratissime borse artigianali soprattutto – si possono trovare anche sui marciapiedi del lungomare di Riohacha, come tra le passerelle di Parigi e New York: nonostante la tendenza all’ultima moda del “made in Guajira”, però, questa non è riuscita a risollevare la situazione precaria dei wayuu, anzi ha alimentato un mercato nero e l’ennesimo tentativo di sfruttamento.

Questi intrecci, protetti dall’Unesco, vengono infatti acquistati dai commercianti colombiani a prezzi stracciati: una borsa creata in quattro giorni di lavoro non-stop viene comprata a meno di 25mila pesos colombiani – 5 euro – e rivenduta ai turisti, nei negozi dei centri commerciali o nelle boutique degli aeroporti, a costi che superano di venti volte quello iniziale. Quest’arte, che nel tempo è diventata fondamentale per il sostentamento dell’intera famiglia, è di fatto l’unica fonte di guadagno per comprare la farina di mais che si utilizza per cucinare la chicha e le arepas, principale fonte di alimentazione nel deserto, ma con un valore nutrizionale insufficiente per coprire il fabbisogno giornaliero.

Guajiros

Povertà, danze, spiriti

Un dettaglio colpisce particolarmente gli occhi estranei che entrano in contatto con il mondo guajiros: qui gli adulti, a differenza dei bambini, mangiano sempre. Questo perché nella povertà estrema la vita degli adulti è fondamentale per sostenere tutto il nucleo famigliare, mentre la morte di un bambino non compromette la sopravvivenza degli altri. La malattia è qualcosa che solo i ricchi possono permettersi. Ed è straniante osservare come, per celebrare il funerale di un figlio morto per malnutrizione, venga sacrificata una capra che poteva essere utilizzata per sfamarlo. 

La cultura wayuu è infatti legata a tradizioni cerimoniali antiche, come rendere omaggio allo spirito Alanía, a cui viene offerto un tributo per neutralizzare il male e proteggere il defunto.
Spiriti e dei impregnano ogni aspetto della vita Wayuu, e a loro vengono dedicati rituali e cerimonie. Nella danza, ad esempio, la mente si svuota per rendere omaggio a Maleiwa, il dio creatore. Le giovani donne fertili, possedute dal ritmo incalzante delle percussioni, iniziano a ballare leggiadre al calar del sole. La Yonna, o Chicamaya, è una delle più sacre espressioni della loro cultura: un susseguirsi di passi che alludono agli animali wayuu, uchii, protettori ancestrali, e alla natura, massima manifestazione del divino. Il tamburo batte, genera un ritmo che riporta all’essenza spirituale della vita, creando una relazione tra il cosmo e l’uomo, e scandendo il pulsare del cuore della Madre Terra. I piedi frementi delle ballerine creano vortici di sabbia che travolgono la scena, trasformandola in uno sfocato ma vivido incantesimo. 

Al ritorno in città il contrasto è forte. Al posto della sabbia della Guajira, l’odore di asfalto e di cibo dei chioschi in riva al mare invade le narici. La musica reggae, sintonizzata al suono delle onde, viene cantata dai turisti in costume da bagno che, sorseggiando un succo al tamarindo, intonano “One love, one heart”, inconsapevoli, o forse no, dell’esistenza di quell’altro mondo che, abbandonato, affoga tra le dune del deserto.

Guajoris, Dep. de La Guajira, Colombia | Chantal Pinzi, ©2021
Testo e Foto:  Chantal Pinzi
Testo originale in Italiano - Traduzione interna
Colombia
Dip. di La Guajira, Colombia
DooG's Contributor
Chantal Pinzi
Germania
Documentary Photographer

© Portfolio - Guajiros

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