Strade – Morire a Sajama

A Sajama, Benigna accoglie i viaggiatori nella sua casa di fango, condividendo tradizioni ancestrali e la preparazione del chuño. Il funerale di Maria Maldonado svela riti antichi e la vita comunitaria

di Elena Casolaro
Sajama, Bolivia - ©Elena Casolaro, 2025
Sajama, Bolivia

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Il cielo sopra Sajama tuona ma non morde, mentre un muro nero dal vulcano si avvicina al campanile coloniale del paese. La cima innevata non si muove di un millimetro, sembra molto più placida di quando eravamo lì sopra a quasi seimila metri e ci sputava vento in faccia a cinquanta chilometri all’ora. Fuori dalle case stanno appesi a seccare pezzi di carne e pelli di lama, mentre la signora Benigna sta seduta in piazza a filare lana di alpaca. La stessa con cui tesse i maglioni che stanno su un paio di scaffali dentro la stanza che fa da sala da pranzo, negozio di alimentari e soggiorno, e su cui affaccia la sua cucina. Ha lunghe trecce con appeso un monile di tessuto all’uncinetto, una gonna che sembra pesantissima e uno scialle fermato intorno alle spalle con una spilla, come tutte le signore boliviane.

Per il resto, la casa è un pugno di stanze costruite intorno a una specie di cortile interno: un’unica gettata di cemento, porte di metallo, materassi di paglia e coperte di lana probabilmente fatte al telaio dalla stessa signora. Ieri abbiamo bussato alla sua porta dopo che il temporale ci aveva costretto per una mezz’ora nella tenda, e lei è stata ben felice di aprirci e di sfamarci con una cena a base di riso e uova. Ha detto che è stata tre volte in cima al Parinacota: il vulcano si trova a un giorno di cammino dal paese, venticinque chilometri che per noi hanno voluto dire fare le cose come le ha fatte Benigna 15 anni fa, anche se ora al campo base si arriva in macchina, basta tirare fuori un po’ di soldi. Poi la signora ci ha spiegato come lavare i panni senza l’acqua corrente, in un andirivieni di bacinelle di acqua sporca da andare a svuotare nel solco che anni e anni di bacinelle hanno scavato per strada.

Benigna è nata qui, e col marito parla aymara, la lingua nativa che risale a prima della conquista degli Inca. Ci spiega come si prepara il chuño, la patata congelata e disidratata che non manca mai nei piatti boliviani. Si sotterra d’inverno nel terreno gelato, ricoperta di paglia, e si calpesta per farle espellere tutti i liquidi, così che si conservi a lungo. Stamattina ancora prima di colazione la signora ci ha detto che oggi si sarebbe tenuto a Sajama il funerale della signora Maria Maldonado, vedova di 82 anni. Otto giorni dopo la morte, amici e familiari si riuniscono nel patio della casa per un velario di ore e ore: tutti seduti in cerchio, bevono birra e liquore alla cannella da uno stesso bicchiere che gira di mano in mano. Ognuno prima di bere rovescia un po’ del liquido per terra, poi butta giù alla goccia e passa al prossimo. Lo stesso vale per bustine di lana colorata contenenti foglie di coca: ne prendono un paio e le aggiungono al malloppo che hanno in bocca, tradito dalla protuberanza su una guancia.

La situazione va avanti per un bel po’, mentre due signore adornano il lama che siede bendato al centro del cerchio con fili di lana fucsia, e altre signore in una stanza con la porta chiusa cucinano e lavano piatti. Poco più in là c’è un mucchio di vestiti, piatti e oggetti vari; sono tutti gli effetti personali della defunta. A un certo punto la situazione si sblocca, e il tipo che presiede la cerimonia invita tutti al silenzio: si fa il segno della croce, dice qualcosa in aymara e, a coppie, i presenti si alzano per rendere omaggio versando del liquido da delle tazze sopra e intorno al lama, e lanciandogli addosso dello zucchero. Quando le coppie sono finite fanno alzare il lama, gli caricano sopra i fagotti con i vestiti della signora Maria, mentre un braciere cosparge il cortile d’incenso, e si avviano tutti verso il fiume. La maggior parte dei presenti si ferma prima del ponte, lanciando dei sassi in segno di addio, e solo otto persone continuano: sono i quemadores, incaricati di portare a termine la cerimonia funeraria. La questione inizia con lo sgozzamento e lo scuoiamento del lama, la cui carne viene divisa tra gli otto rimasti. Viene accesa una pira, dove si inizia a bruciare tutto quello che a un morto non serve: i maglioni di lana, i gonnelloni pesanti, pentole, teiere, bottigliette di cosmetici e la bestia sacrificata.

Arde tutto sopra un copertone di gomma, senza nessuna remora per le diossine, alimentato dall’alcol e dalle bottiglie di plastica che lo contengono. Si alza un fumo denso, e gli astanti bevono e fumano sigarette con le cartine bianchissime. Nel frattempo avviene l’atto più truce di tutti, saltino due righe i deboli di stomaco: due uomini stringono la corda attorno al collo di un cane, e si allontanano l’uno dall’altro tirando fino a strangolarlo. Il cane non brucia, viene lasciato al sole perché, essendo un animale che sa muoversi nell’acqua, deve accompagnare la defunta nel suo attraversamento del mare. Per questo, quando tutti gli oggetti sono stati gettati nel fuoco, i quemadores si inginocchiano in direzione della cordillera e della costa cilena, e dicono una preghiera. Poi si lavano le mani nel fiume e tornano a casa della defunta.

Qui li (ci) aspettano tutti gli altri, seduti di nuovo in cerchio in una stanza. Ci inginocchiamo per un’ultima preghiera e poi, con nostro sommo stupore, un paio di persone iniziano a distribuire piatti di riso, carne e patate. Mangiano tutti parlottando tra loro, qualcuno ridacchia e sicuramente ci prende in giro in lingua indigena. Quasi nessuno finisce il suo piatto, ma tirano fuori dalla tasca una bustina e rovesciano gli avanzi, riservando la pietanza al giorno dopo. Inizia un altro giro di liquore e il figlio della defunta ringrazia tutti per aver accompagnato la sua famiglia in questi otto giorni di veglia.

Qualcuno poggia sul pavimento due casse di birra e si capisce che la cerimonia sta volgendo al termine, quantomeno quello ufficiale. Ce la svigniamo con qualche parola di ringraziamento, e corriamo dalla nostra Benigna che sarà preoccupata di vederci tornare così tardi, e già cenate. Le chiediamo se abbiamo fatto qualcosa di sbagliato, se dovevamo portare qualcosa alla cerimonia, ma pare di no. Prima che cambi versione mi infilo sotto le coperte così spesse che forse mi seppelliranno, e mi chiedo se sognerò lama e cani squartati o signore con la bombetta e gigantesche gonne colorate, e se quel fuoco sta ancora bruciando, laggiù oltre il fiume.

Sajama, Bolivia – ©Elena Casolaro, 2025

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Testo e Foto:  Elena Casolaro
Testo originale in Italiano - Traduzione interna
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