La Paz, Bolivia | marzo 2020
In questi giorni, nel nostro immaginario, ci saremmo ritrovati nella millenaria geografia Inca posta nel cuore del Perù. Avremmo incontrato – e vissuto – alcune delle piccole missioni cattoliche sparse nel continente andino, obiettivo del nostro lungo viaggio in Sud America.
Ma non lo faremo. Ci hanno bloccato.
Sono passati quasi due mesi da quando, in un fanciullesco entusiasmo, ognuno di noi, nel porto di Valparaiso, ha ritrovato la sua motocicletta e fondendosi con essa ha proseguito quell’intimo dialogo che solo un motociclista sa riservare alla propria moto.
Dal Cile, dirigendosi verso l’estremo sud nella Terra illuminata dai fuochi di antiche tribù, abbiamo rincorso l’infinita Patagonia avendo il nord come unica direzione.
Le ruote della moto mordevano polvere e vento (cit.) e il nostro pensiero rimaneva sulle miglia avanti a noi: all’esperienze che avremmo voluto vivere, alle persone che avremmo incontrato, alle storie che avremmo ascoltato, ai cani che avremmo schivato lungo la Ruta.
A ciò che avremmo condiviso e a quanto saremmo stati capaci di riportare a casa.
Dopo poco più di 10mila chilometri tra sassi, terra, e strade asfaltate, volgendo le spalle alla nostalgica Buenos Aires i nostri occhi sono rimasti abbacinati e confusi dalla potente quanto irruente forza del Paraguay – terra di missioni gesuite – per giungere poi al confine boliviano. Paese di deserti, foreste, miniere, e grandi altitudini. Il respiro si è fatto sempre più pesante e il Mate de Coca non sempre capace di alleviare lo sforzo dei 4mila metri.
Dopo tre rotture di moto ormai stanche, riparate ai bordi di strade deserte, siamo ripartiti e infine giunti nella capitale, La Paz, percorrendo una periferia stridente, rumorosa e soffocante, figlia della fantasia di George Miller. E qui catapultati in una dimensione molto diversa dallo spettacolo naturale dei giorni precedenti. Ci siamo preparati per l’ultima parte di questo nostro peregrinare: il confine con il Perù distante solo 120 chilometri.
Le notizie che giungevano dal mondo – per noi orientale – rimanevano ancora confinate al solo pensiero per le nostre famiglie: italiane, spagnole, tedesche, e austriache. Con l’ingenua arroganza tipica del viaggiatore nel giusto, ancora non sapevamo che qualche ora più tardi, nelle fredde ore di un’imminente notte boliviana, una burocrazia ottusa ci avrebbe fermato alla frontiera con l’ultimo dei paesi del nostro itinerario.
Un disguido di procedura, un fraintendimento di orario, forse un fuso non considerato, ma per più di 4 ore ci siamo ritrovati clandestini in terra peruviana, senza una reale possibilità per proseguire o per rientrare. Semplicemente: fermi!
Alle 3 del mattino siamo rientrati a La Paz con le ossa infreddolite e gli occhi rigati dalla pioggia della notte. Una delusione che annebbiava la visiera del casco dal di dentro, mille pensieri per un male che nella sua meschina natura, il coronavirus, aveva per la prima volta toccato e scalfito anche il nostro obiettivo: concludere la missione e fare fede all’impegno che ci eravamo presi con chi, insieme a noi, ha creduto e sostenuto questa spedizione di pace.
Ora non rimane che rientrare in Italia. Ma come?
Rientrare in Italia: tre parole che ancora oggi non riusciamo a dire con certa serenità perché una data ancora non c’è. Perché un punto di partenza ancora non c’è. Perché ogni giorno molte opzioni appaiono e scompaiono. Perché un semplice “come”, al momento non c’è.
Le frontiere sono state chiuse e gli spazi aerei pure. Le compagnie aeree propongono voucher di rebooking da città irraggiungibili o in date indefinibili, mentre noi si vorrebbe solo un volo per l’Europa. Ora. O almeno una data certa.
Fermi, bloccati, inermi, abbiamo iniziato un viaggio dentro il viaggio. Un viaggio dentro le ragioni che ognuno si costruisce. Prigionieri di noi stessi. Con un’inutile mascherina sul volto ci illudiamo nell’immunità dal male.
Ogni giorno ci giungono le notizie dal mondo – oggi per noi sempre meno orientale – ma tardano ad arrivare le uniche che vorremmo realmente sentire: quelle degli uffici che ci riconoscano il diritto nel possedere un passaporto di una nazione forte.
Bloccati nella città dove di notte il cielo stellato si ribalta e illumina la terra, oramai lo ammiriamo annoiati dalle grandi finestre nel panorama di questa metropoli dai mattoni rossi.
E io, Gabriele, che vorrei percorre quelle calle per la sola ragione del mio stare – scoprire storie e riportare racconti – guardo disincantato ciò che non posso raggiungere.