Patagonia, febbraio 2020
Ricordo la polvere dei cavalli in corsa e nubi di fumo portate dal sibilare del vento. Ricordo il falco guardare dall’alto le mie rughe. E insetti immobili sulle rocce bianche. Ricordo le montagne grigie intraviste nell’afosa foschia. Notti fredde e sterminate nella Pampas, tra rovi e fiumi.
Ricordo i volti duri, e le voci urlanti di una lingua ormai perduta. Ricordo esploratori inopportuni alla ricerca di mondi a loro incomprensibili. Passi pesanti calpestare cespugli spinosi. Sgretolare le pietre come il tempo che scorre.
E nel tempo che qui si perde, perdo i miei ricordi. E questo cielo. E queste stelle.
Ora, vedo migranti di tutte le latitudini varcare nuove frontiere. Vedo lingue d’asfalto graffiare la mia terra. Camion imponenti sporcare l’orizzonte. Vedo auto, moto e biciclette. Turisti ammaliati dal mio silenzio sfidare le proprie piccole solitudini. Attraversarmi è il loro obiettivo. L’incanto del viaggiare li spinge verso sud alla ricerca di una calma ancora primitiva.
Più giù, dove l’avventura è ancora possibile, lì dove il mondo finisce.
Soddisfatti del loro errare non possono far altro che risalire, battendo ancora la mia terra stanca.
E camminando sotto il sole che tramonta a ovest e si inabissa nel Pacifico (cit.), non si curano della mia malinconia. Distratti, voltano le spalle al mio passato e quel che resta è l’amara libertà degli infiniti spazi.
Io sono la Patagonia.
Amante difficile, essenza del sogno. Elementare forma della vita, immobile spettatrice.
Io… sono Polvere e Vento.