La coscienza dei profughi vissuta ai confini con l’Europa
Parlare di profughi afghani significa prendere coscienza di un argomento che oramai ha assunto un carattere di normalità all’interno del nostro sistema sociale. Nell’odierno si può infatti affermare che una vera e propria classe, costituita da persone che hanno perso tutto nel loro paese d’origine e vivono all’addiaccio ai confini con l’Europa, si sia venuta a creare e si mantenga costantemente in piedi attraverso una vera e propria organizzazione a delinquere. Tutti sanno ma nessuno sembra fare qualcosa. Anzi, forse le stesse istituzioni sono parte integrante di questo processo. Le stesse forze dell’ordine nei paesi dove i profughi trovano rifugio; le stesse istituzioni europee che a Bruxelles, riunite intorno ad un tavolo, tentano di accaparrarsi il maggior vantaggio possibile dalla crisi migratoria in corso. Il problema, però, è che questa crisi colpisce persone reali che tentano un avvenire migliore per la propria persona, fuggendo dal loro paese d’origine distrutto dal fondamentalismo religioso.
La rotta balcanica
La rotta balcanica costituisce la principale via di affluenza in Europa per i profughi afghani. In questo paese del Medio Oriente, infatti, i Talebani al potere rendono impossibile un’esistenza plausibile al buon vivere. Tutto è filtrato, in Afghanistan, attraverso una dittatura basata sulla religione, cosa che comunque non vige solo a Kabul. Durante la mia permanenza in Serbia, attraverso la ONG No Name Kitchen, sono potuto entrare in contatto anche con persone provenienti dall’Iran e dal Pakistan. In questi paesi la religione funge da pretesto, per lo stato, al fine di dettare un dogma incontestabile. Mortesa, un giovane di circa trentacinque anni, è una di queste persone. Parlando con lui ho potuto capire meglio come lo stesso governo, in Iran, sia fautore del mantenimento economico delle forze guerrigliere islamiche, come Hezbollah o gli stessi Talebani.
Perché sei dovuto fuggire? …per essere libero!
Questo non va confuso con l’operato di ISIS. «Isis vuole conquistare gli altri stati», mi dice Mortesa, mentre i Talebani, «vogliono la totale sovranità all’interno del proprio paese. Io sono dovuto fuggire insieme a mio padre dall’Iran – dove non ci sono ancora i Talebani– e lasciare mia madre e mia sorella». «Perché sei dovuto fuggire?», gli chiedo, seduto a un bar di Sremska Mitrovica, in Serbia, dopo averlo condotto, insieme al padre, a una visita dentale pagata dalla ONG spagnola con la quale mi trovo a collaborare. Grazie all’associazione No Name Kitchen, infatti, il padre di Mortesa ha potuto avere cure adeguate per la ricostruzione dell’apparato dentale, distrutto dalle percosse ricevute dalla polizia croata durante il suo tentativo di attraversare il confine dalla Serbia.
«Mio padre ha servito il mio paese come militare. Durante le proteste del 2009 contro il governo presieduto da Mahmud Ahmadinejad, è stato incarcerato con violenza per aver protestato i propri risentimenti contro il potere. In Iran ancora oggi le istituzioni mantengono la forza attraverso la paura. Siamo dovuti fuggire per essere liberi, per poter vivere come ci pare e piace. Siamo fuggiti, ripeto, perché altrimenti non sarebbe stato possibile, per noi, uscire dal nostro paese». Ed è proprio questo sentimento che traspare dalle parole dei profughi che ho incontrato: una volontà di libertà personale impossibilitata dal governo al potere.
Un abbandono totale
Si sta parlando di ragazzi dai quindici ai trenta – trentacinque anni d’età. Il loro comportarsi in modo quasi spensierato, nonostante le condizioni di vita imposte dalla guerra, mi hanno fatto scaturire un sentimento di rassegnazione, in relazione alla loro condizione, che gli stessi profughi sanno di non poter risolvere. Si sta parlando di persone che, nonostante vivano in catapecchie in balia delle malattie, o in accampamenti improvvisati nelle boscaglie a fianco della ferrovia, al freddo, in tende e senza scarpe adatte, sono ancora capaci di mantenere una dignità che io non sono riuscito a trovare nella società estranea a questi fatti. In assenza di vie legali, questi profughi si servono di un’organizzazione, gestita dai trafficanti di esseri umani, per raggiungere lo spazio Schengen al fine di ottenere lo status di rifugiato politico. In Serbia – soprattutto nei dintorni della cittadina di Šid – i profughi stazionano in accampamenti prestabiliti e, sulla via verso il confine, comunicano via smartphone attraverso le principali chat. Si organizzano in modo autonomo, e rimangono per poco tempo nello stesso accampamento. Si tratta di persone giovani, coordinate da persone più adulte che restano nei vari punti per più tempo, al fine di controllare il processo di migrazione. Una vera e propria affiliazione di migranti con l’obiettivo di un futuro migliore per i più giovani fra loro.
Se non fosse per le ONG che operano con i profughi, queste persone si ritroverebbero abbandonate a loro stesse. Nonostante le istituzioni conoscano la loro esistenza e la situazione in cui versano, nessuno si occupa della loro sopravvivenza. Se le ONG non distribuissero loro vestiti, cure e cibo, queste persone non smetterebbero comunque di dirigersi verso l’Europa, rischiando di morire, letteralmente, nell’ombra. Sono individui costretti a un abbandono totale. Vivono alla giornata, senza sapere se la persona che hanno a fianco, proveniente dal loro stesso paese, sia un amico o, se invece, li abbandonerà alla prima occasione. Sono completamente soli. Troppe volte, infatti, sembra che solo le ONG siano l’unica parvenza di umanità che possono ricevere.
Il sogno di un futuro migliore
Si sta parlando di una condizione di vita estranea al progresso sociale raggiunto in Occidente. Le persone che fuggono dall’Afghanistan sognano un avvenire altrimenti impossibile al loro paese: una condizione, questa, che facilmente può essere compresa da chiunque. Secondo alcuni punti di vista, si sta assistendo a un vero e proprio esodo culturale che rischia di minare le tradizioni europee. Ma un profugo di diciassette anni che vive in una tenda nel mezzo di una boscaglia in Serbia non ha alcun desiderio alcuno, se non quello di un futuro migliore. Anzi, non ha idea alcuna del proprio futuro. Ed è facilmente comprensibile come gli stessi genitori, in Afghanistan, non possano far altro che obbligarlo alla fuga. Se le istituzioni europee non prendono coscienza di questo, aprendo la propria cultura alla diversità, ci si dovrà preparare a inevitabili contrasti culturali, incomprensioni di genere razziale, nascita di subculture anche violente, rovina della coesistenza sociale.
Siamo tutti parte di una comunità fatta di persone, prima che di culture
Durante la mia permanenza in Serbia ho cercato di capire cosa passa per la mente di un giovane profugo che scappa dal suo paese, mollando la famiglia, per andare a vivere in una tenda in mezzo al bosco senza nulla. Speranza. Incondizionata. Talmente tanto forte da non farlo arrestare di fronte alla violenza che riceve al confine. Queste persone vivono per un futuro migliore. Non hanno nulla da perdere, perché una volta giunti ai confini con l’Europa, non possono più tornare nel loro paese d’origine: la condizione che si troverebbero ad affrontare sarebbe peggiore di quella che vivono nel paese straniero.
Durante la mia permanenza in Serbia mi sono sempre sentito parte di una comunità fatta di persone, prima che di culture. Ho ricevuto ospitalità quando, una volta, mi accingevo a distribuire loro cibo e vestiti. Ho potuto constatare che il rispetto è una cosa che non va trascurata. Entrando in contatto con i profughi ho capito non esistono differenze di alcun tipo, se non le si va a cercare per questioni estranee alla coesistenza umana. Ho dovuto attenermi alle loro usanze, certo, ma ho anche ricevuto rispetto per le mie. Ho dovuto capire come comportarmi, rispettando e ascoltando i loro punti di vista, la loro religione, i loro saluti, com’è normale che sia quando si entra in una comunità diversa dalla propria.
Questa coscienza ha arricchito immensamente la mia personalità.