Puoi continuare a seguire il Viaggio di Elena, iscrivendoti a STRADE
6 dicembre 2024 – Stamattina esco dalla sottospecie di hotel in cui ho passato la notte con lo zaino che mi preme sui lividi di ieri e un grosso dubbio in testa. Si tratta della strada da prendere per raggiungere la costa Sud della Repubblica Dominicana dalla città in cui mi trovo, Constanza, nel bel mezzo delle montagne. Il fidato Google Maps me ne suggerisce una che sembra piuttosto piccolina dal satellite, ma l’altra allunga considerevolmente il percorso (pur permettendomi di vedere la cascata più alta del Caribe).
Vado a fare colazione nel più vicino colmado (possiamo chiamarlo negozietto di varietà), che mi serve riso, salame e platano (banana salata) fritto. Non si può realmente scegliere, in questi posti. Chiedo al proprietario consiglio sulla strada, e inizia la solita tiritera di ‘Oh Dio sei qui da sola, in autostop, ma sei matta ma perché tuo marito non è venuto…’ La sorbisco per un po’ e poi riesco a strappargli l’informazione che volevo: passa per la strada più piccola. Poi cerco di pagare, ma niente, mi offrono la colazione di cui metà d’asporto, perché mica mi mangio due etti di riso alle 8 in punto.
Però la cascata più alta del Caribe non me la voglio perdere, quindi il piano è: trovare un passaggio fin lì (meno di un’ora per una ventina di km), fare il trekking fino alla cascata e poi tornare indietro per prendere l’altra via. Che ottimismo, ragazzi. Per strada mi passano accanto delle ragazze dirette verso la scuola, e le sento bisbigliare tra loro: “E’ una turista mochilera” (zaino in spalla, ndr) come si trattasse di una strana specie aliena. Alla fine una trova il coraggio di chiedermi se sono effettivamente una turista mochilera: è perché loro sono studentesse di turismo, appunto.
Mi do dieci minuti di tempo per trovare una macchina, mentre i mototaxi mi deridono, e non li aspetto neanche tutti: c’è qualcosa nel mio stomaco che mi dice che è il caso di andare. Attraverso la strada e dopo dieci secondi mi carica un camion rosso, confermando la grande verità che ho imparato quando ho fatto il giro d’Islanda in autostop: le macchine rosse si fermano sempre.
Ci metto un attimo a ritrovarmi su una strada che assomiglia molto a un sentiero, di fango rosso, senza l’ombra di una macchina. Penso che forse ho fatto una cazzata, quando spunta Juan a bordo della sua moto. ‘Mi dai un passaggio?’ e scopro che arriva fino a Padre Las Casas, la prima città dopo lo sterrato. Non so se questa si chiama fortuna. Le successive cinque ore passano a bordo della moto, con io che stringo ogni muscolo che ho in corpo per non essere trascinata giù dallo zaino nelle ripide e sconnesse salite che caratterizzano il percorso. Il panorama è stupendo: montagne verdissime e rosse una dietro l’altra, spesso coltivate anche nei pendii più scoscesi, con boschi di banani alle pendici. Era questo che volevo vedere quando pensavo all’interno dell’isola. Peccato che non riesco quasi a fare foto, perché le mani mi servono entrambe, e molto, per non finire spalmata nel fango.
A metà strada ci fermiamo in una fattoria di avocado, limoni e fagioli, dove Juan, commerciante di ortaggi, tratta sul prezzo dell’avocado (qualcosa intorno ai 13 pesos l’uno, circa 20 centesimi di euro). Ci offrono un caffè dolcissimo e poi il pranzo preparato da Jasmine: 17 anni, cucina su un fuoco di legna in una baracca fuori dalla casa, con galline all’interno e un maiale che pascola nelle vicinanze. Va a scuola una volta a settimana, il sabato, dalle 8 alle 16, a Constanza. Riempie i nostri piatti di riso facendo una specie di torre ben oltre l’orlo, e mi fa un po’ male il fatto che Juan ne dia 3/4 alle galline, ma alla fine devo dargliene anche io.
Dopo pranzo riparte il viaggio della speranza, e spesso devo scendere dalla moto e farmi la salita a piedi, con buona pace delle mie braccia piene di lividi per lo sforzo di reggermi: mi tremano le mani. Dopo una trattativa sul prezzo dei fagioli, alle due del pomeriggio usciamo sulla strada asfaltata, e non sembra quasi vero. Le ruote scorrono lisce, e non rischio di essere sbalzata via ogni 3 secondi. Finalmente posso permettermi di respirare, e arriviamo a Guayabal, dove c’è un fantastico hotelcito in cui passare la notte. Faccio un giro per il paese con le gambe che mi reggono a stento per lo sforzo della giornata, e la gente mi guarda come se fossi appena atterrata dalla Luna. Però quando chiedo se vedono tanti turisti, rispondono sempre ‘Si, tantissimi’. Mah.
E’ una cittadina così piena di vita che questa scivola via dalle finestre aperte sulle case in penombra, e si riversa in strada dove i bambini corrono, i vecchi giocano a scacchi, qualcuno ripara motorini o vende vestiti e verdure, con le casse che pompano musica sempre altissima.
Sono appoggiata allo stipite della porta della mia camera per cercare internet, quando il figlio della proprietaria dell’albergo mi invita a prendere un caffè con la sua famiglia. Non mi alzo da quella sedia fino alle 10 di sera, si susseguono conversazioni con amici di tutto il paese, e organizzano in mio onore una serata italiana con pizza e addirittura una bottiglia di vino.
E’ la degna conclusione di una giornata in cui mi sono chiesta più volte se stessi vivendo una figata o un film dell’orrore. E si, anche la storia del giorno in cui mi hanno offerto tre pasti su tre.