Nell’arido deserto dell’Hammada, al confine tra il Marocco e la Mauritania, vivono quasi duecentomila rifugiati saharawi; un’area ceduta a sovranità “temporanea” dal governo algerino alla Repubblica Democratica Araba dei Saharawi (RASD) che governa in esilio da quasi cinquant’anni. Un’alternanza di attesa, guerra e diplomazia. Una clessidra senza sabbia. Nel gennaio di quest’anno, l’ultimo congresso del Fronte Polisario – l’organizzazione militante e politica nata nel 1973 – ha chiarito, in parte, i rapporti con il Marocco: «Intensificare la lotta per porre fine all’occupazione e ripristinare la sovranità». Ma il popolo resiste, sospeso, tra banderas blancas e vecchi e pesanti kalashnikov.
Azma è il primo viso fuori dall’aeroporto di Tindouf. Originario del villaggio di Dakhla, nei territori occupati, ha combattuto per quindici anni contro il governo di Rabat. Ora è il mio autista, gli occhi intensi nel buio a mo’ di segnale della determinazione del suo popolo.
La frontiera saharawi – all’ ingresso della Wilaya di El Aaiun – è poco distante. Si tratta dell’unico punto in cui i militari di Algeri consegnano alle guardie della RASD i cittadini stranieri in visita. Da lì in avanti le rotatorie segnano le piste che conducono ai campi dei rifugiati, un’area organizzata in cinque Wilaya (province) e trenta Daira (villaggi), dove oggi vivono gli esuli. La contesa del Sahara Occidentale nasce negli anni Trenta del Novecento ed è segnata dalla decolonizzazione spagnola, dalla bramosia marocchina e dall’autodeterminazione di un popolo nomade, in un territorio di 266.000 km quadrati con coste pescose e giacimenti di fosfati ubicati nella grande miniera di Bou Craa.
I racconti degli anziani capifamiglia e dei giovani angosciati dal futuro mi colpiscono mentre percorro con la mente la loro storia.
Sukaina ha ottantaquattro anni, il volto tagliato dalla luce trasversale che filtra nella sua abitazione, nel barrio 4 della Daira di La Guera; l’anziana è una trasfigurazione reale della sua terra ora divisa; un corpo che ha vissuto le tre generazioni più dure per il popolo Saharawi. Fino al 1975 l’attesa di un referendum per l’indipendenza stabilito dall’Onu, poi una guerra di quindici anni, l’arbitraria costruzione ad opera di Mohammed VI del “Berm” – il muro della vergogna per i Saharawi – e la divisione tra i territori “utili”, quelli occupati dal Marocco e ricchi di giacimenti di metallo, e le aree liberate dal Fronte Polisario. Nei mesi della Marcia Verde marocchina, un’invasione militare con l’obiettivo di alterare l’esito della consultazione, Sukaina è stata costretta a fuggire con la famiglia. Il figlio Abdellhai traduce il suo breve racconto. «I camion del Fronte Polisario sono arrivati subito, in cielo due aerei militari cercavano di individuare chi scappava, le donne nascondevano i figli e gli anziani sotto i vestiti. In cinque giorni siamo arrivati nei campi». Dal 1991 una fase di tregua, la risoluzione OUA-ONU sul referendum, poi, nel novembre 2020, il casus belli, ovvero la protesta delle donne saharawi al passo di El Guarguarat; gli stivali marocchini aprono il fuoco e inizia un nuovo conflitto, tuttora in corso.
Fin da subito la percezione del benessere iniziale sembra sgretolarsi. La prolungata attesa di una pace spinge verso una frustrante e crescente solitudine. Sull’uscio di casa Hira, un padre ex militare non vedente e una madre anziana, sente i nostri passi. «A sei anni sono stata a Castilla – La Mancha, ci sono tornata cinque volte in estate, ora ne ho ventidue e so che in questa vita non avrò nulla. Potevo fare l’infermiera o la maestra ma non posso studiare, qui è come se fosse un’altra terra».
Hira non è l’unica a percepire uno spazio mancante. Kaver nella sua tenda parla da adulto. «Sono pronto ad andare in guerra se ci sarà una chiamata collettiva, ma ottenere la libertà attraverso un conflitto armato sarà un sacrificio sia per noi, sia per loro. Siamo tutti esseri umani e siamo della stessa carne». Si riferisce ai marocchini, che non nomina mai. «Il popolo Saharawi è sopravvissuto per molto tempo, aspetteremo quello che manca. È una questione di cuore forte.»
Khalia è la più piccola della famiglia che mi ospita. Appare serena mentre camminiamo tra le nuove costruzioni con mattoni di cemento; chi può destina le vecchie abitazioni in sabbia, sgretolate dalla pioggia e senza tetto, a recinto per galline e capre smagrite. Trascina eccitata i piedi nella sabbia umida dopo un acquazzone notturno. Ha trovato dei germogli e li custodisce, facendoli ingenuamente morire, sul palmo della mano, le cui grinze curve sembrano sorridere.
La sopravvivenza nei campi dipende dagli aiuti umanitari internazionali: PAM, UNICEF e ONU. Spetta poi alle comunità locali occuparsi della distribuzione di acqua e cibo ai rifugiati. Alcune associazioni solidali promuovono invece adozioni a distanza. Esistono, inoltre, strumenti di finanziamento a beneficio delle famiglie per progetti di coltivazione o allevamento sostenibili, accompagnati da programmi di formazione. Molti, nati nei campi e ormai cinquantenni, sono andati a studiare a Cuba; alcuni hanno trovato lavoro in Spagna e mandano le rimesse alla famiglia, altri sono tornati per praticare la professione medica negli ospedali di Rabouni o Aguenit. Qui però mancano materie prime per i farmaci galenici o le intubettatrici di pomata che viene versata nei contenitori con il cucchiaio. Solo chi ha la cittadinanza spagnola – perché la famiglia era iscritta all’anagrafe del paese colonizzatore – ha libertà di movimento.
Ho tempo prima della cena aspettando che arrivi l’ultimo pane caldo. Sid Brahim mostra il suo nuovo regalo nella tenda con i grossi fiori ricamati. Il delfino e il telo azzurro sullo sfondo sono un ossimoro visivo, per tutti i giovani del campo il miraggio di un qualcosa mai comparso realmente dinanzi ai loro occhi. «Mullay, è questo il mare?», è la domanda che i bambini rivolgono sempre al loro accompagnatore il primo anno di accoglienza estiva, attiva in Italia con il progetto “Piccoli Ambasciatori di Pace”. «No, è una piscina!». Non è facile afferrare nel profondo lo stato d’animo incerto di questo popolo.
Per l’ultima notte nel villaggio cambio casa e, forse, prospettiva. Tawualo ha combattuto fino a dicembre nei gruppi di supporto dei militari e per lui è netta la differenza con chi non è mai andato al fronte. «Desiderare un conflitto significa non aver visto gli occhi dei prigionieri. Uccidere un fratello arabo è una debolezza. I marocchini pagano gli errori del governo e sono costretti alla guerra per comprare il pane, noi la stiamo facendo per tornare nella nostra terra, il Sahara Occidentale.» Sull’evoluzione della guerriglia, poi, come a rassicurare un’ampia platea presente e assorta, è ancora più categorico. «Voglio aspettare ancora un po’, voi siete le nostre palomas blancas della diplomazia. Le parole che porterete fuori da questa casa sono più forti e incisive della politica, che è malata. Rappresentate una medicina, una pasticca che rende consapevole alla reazione un corpo abbandonato. Prima di tornare nella stanza comune alza le braccia mimando una bilancia. «Sì, in questo momento siamo in bilico, tra una bandiera bianca e una mitraglia».
Nel cortile interno è quasi buio, Leila si appoggia al muro lungo, contando. La sorella Lamina e la cugina Alwaha si avvicinano senza farsi sentire. “Un, due, tre, stella!” è un gioco tradizionale anche qui. L’auspicio, con gli occhi di nuovo aperti, è di ritrovarsi di là, liberi, nella terra attesa da mezzo secolo.