La missione di Jack
Il sole batte implacabile sulla ferrovia e passo dopo passo gli occhi si incrociano con quelli di tante, tantissime altre persone: gli adulti più perplessi, i bambini pieni di curiosità. Mi viene fatto segno di non fermarmi, mentre ci muoviamo in spazi stretti, offuscati dai fumi di plastiche e gomme che bruciano nei dintorni. Muri di lamiera e terra delineano la strada fino a che, senza quasi rendercene conto, il panorama si apre, e dall’argine la vista dà le vertigini.
“Scendiamo” propone Jack, con la confidenza di chi si sente a casa. Lui dice che chi nasce a Kibera difficilmente la lascia, alcuni per assenza di alternative, altri per restare e aiutare la comunità. La sua scelta fu simile, quando ancora diciottenne decise di lasciare il suo villaggio per trasferirsi a Kibera, uno dei più vasti insediamenti informali di Nairobi, dove oltre mezzo milione di persone sopravvivono in condizioni di povertà estrema.
Negli anni trascorsi a Nairobi si immerge profondamente nella vita delle periferie e, in queste strade, si rende conto di avere sia le capacità, sia la passione necessaria per dedicarsi all’educazione sociale. Una dote che prende presto la forma di una missione: sostenere le famiglie senza una casa e convincere i bambini ad abbandonare la vita di strada. In cambio, offre loro un percorso alternativo fatto di scuola, sogni e famiglia. Una famiglia costruita su un amore incondizionato e la premurosa attenzione di chi ha fiducia in te.
Ombre a Nairobi
“Le famiglie sono per la maggior parte giovani, spesso composte da sole donne con i loro bambini. Sono ombre agli occhi della società, come monete cadute per terra, considerate di troppo poco valore per essere raccolte”, mi racconta Jack mentre ci addentriamo a Tsunami, un groviglio di vicoli e vie caotiche, situati in un’area prossima al centro città, dove 4000 famiglie vivono senza dimora. Il nostro arrivo non passa inosservato e chi può si avvicina in cerca di aiuto. Avvolti da una folla di adolescenti, Jack mi indica in lontananza una donna in disparte, accovacciata vicino a un canale d’acqua. “Da un mese a questa parte stiamo provando a rintracciare suo figlio, – e continua – capita che giovani e adolescenti abbandonino le loro famiglie, molto spesso a causa della paura nei confronti dei propri familiari, un aspetto che li può portare anche a dei gesti estremi”.
La percezione dei bambini di strada da parte delle loro famiglie è complessa e contraddittoria: da un lato emerge un senso di affetto e protezione nei confronti dei propri figli, dall’altro, la difficoltà ad accettare o riconoscere le ragioni che li ha portati ad allontanarsi. “Una delle principali ragioni è l’emarginazione, sia subita che avvertita, nei momenti di fame, di malattia e di violenza, che spinge i bambini verso l’abuso di sostanze, – mi spiega Jack – una via d’uscita spesso adottata per evadere dall’acre realtà che li circonda, e questo accade soprattutto nelle famiglie più vulnerabili”.
Le sostanze includono colla, benzina e altri carburanti esausti che interferiscono con lo sviluppo cerebrale e causano danni permanenti ai polmoni. Una tendenza che aggrava una crisi sanitaria già esistente, evidenziata da un tasso di mortalità infantile circa due volte e mezzo superiore qui nelle periferie di Nairobi, rispetto al resto della città.
Il fenomeno è strettamente connesso ai traumi indotti dall’estrema povertà, che compromettono significativamente la salute mentale dei bambini. Jack e gli educatori della comunità di Koinonia lavorano ogni giorno per contrastare questa tendenza, attraverso il consolidamento di ventisei centri operativi situati all’interno di aree come quella di Tsunami. La loro costante presenza è fondamentale per ricevere in cambio l’ascolto di bambini e adolescenti, che hanno rinunciato a sognare pur di non soffrire.
Piccolo Fratello
Mani strette intorno ad una ringhiera e piedi nudi ben saldi a terra. Con fare sospettoso finge di non vedermi, nonostante la mia visita sembri essergli gradita.
Più mi avvicino, più lui si irrigidisce, perciò decido di fermarmi, chinarmi e incrociare i suoi grandi occhi neri. Gli sorrido e indico un graffito accanto a lui che raffigura un insieme di impronte di piccole mani racchiuse in un cuore. Anche lui sorride.
“Mi chiamo Fabio, tu come ti chiami?” Chiedo, ma la domanda sembra irritarlo, al punto di voltarsi e guardare nella direzione di un’ampia stanza in fondo al corridoio. Interpreto il suo gesto come un consiglio, e mi dirigo verso la porta aperta da cui provengono risate e voci squillanti. Attraverso il corridoio quando, all’improvviso, sento la sua mano stringere la mia. La stringo e insieme ci dirigiamo verso la porta.
“Come ti chiami?“ provo a chiedergli di nuovo.
“Diego” mi risponde, guardando dritto verso la stanza.
“Piccolo Fratello”, in Swahili Ndugu Mdogo, è il centro di recupero gestito da Jack, situato alle porte di Kibera. Attraverso la collaborazione di operatori sociali, enti governativi e membri della comunità, il centro identifica i minori in situazioni di emergenza familiare offrendo loro un rifugio e la speranza di un futuro migliore.
Ogni anno il centro accoglie dalla strada un totale di 40 bambini e, dall’avvio del programma nel 2005, circa 1000 di loro hanno vissuto questo percorso di crescita, per poi tornare dalle loro famiglie. Jack ritiene che questo sia l’aspetto più importante della sua missione: che i bambini tornino a casa con delle solide basi per continuare a crescere insieme alla propria famiglia, consapevoli di avere gli strumenti necessari per gestire le difficoltà che dovranno affrontare.
I passaggi successivi vedranno l’introduzione di nuovi programmi, non più rivolti solo ai bambini, ma anche alle loro famiglie: “Circa l’80% dei ragazzi che sosteniamo provengono da famiglie che vivono in estrema povertà, che non possiedono gli strumenti necessari per sostenere i loro figli – e continua – questa è sicuramente la ragione per cui un gran numero di giovani cresce in un contesto di violenza e aiutare le famiglie, significa affrontare la questione alla radice”. In questo senso, il sostegno economico costituisce una forma di supporto essenziale, ma non si tratta dell’aspetto più importante: “Parlare e trascorrere del tempo con i bambini ha ancora più valore dei servizi che possiamo fornirgli attraverso le donazioni – mi spiega Jack – sono il tempo, l’affetto e l’attenzione che mancano, più che i beni materiali”.
L’altra parte di sé
“In genere è presente la figura di un padre o una matrigna violenti. Sono infanzie molto difficili in cui la prima cosa da offrire al bambino è la sicurezza, e fargli capire che ok: chiunque tu sia, comunque tu sia arrivato, qui sei al sicuro, qui sei a casa tua, qui sei protetto” racconta Padre Kizito Sesana, missionario comboniano e giornalista italiano. A Nairobi ha dato vita alla comunità di Koinonia e in Italia è tra i fondatori dell’organizzazione Amani. Nella periferia di Kivuli ha aperto uno dei primi centri di accoglienza di Nairobi: il Kivuli Center, un luogo dove bambini e giovani che vivono in strada possono trovare cibo, sicurezza, ma soprattutto un sentimento di appartenenza che si estende a tutta la comunità.
La generosità e l’accoglienza offerte all’interno di queste strutture hanno infatti contribuito a creare una rete di supporto che si estende anche alle persone al di fuori del centro, promuovendo così l’importanza dell’inclusione sociale, e del ritorno in famiglia da parte dei bambini accolti.
Si tratta di un approccio molto complesso che richiede tempo e prova a rispondere alle loro necessità, individuare il tipo di trauma e far emergere la personalità di ciascun bambino. Alcuni mostrano una sorprendente resilienza, riuscendo a superare traumi intensi, mentre per altri il cammino può essere più lungo e tortuoso. “La strada non smette di affascinare, perché non impone loro una riflessione, mentre nel centro di recupero vengono imposte alcune regole – mi racconta Padre Kizito – con il passare del tempo il vissuto di alcuni bambini può prevalere sulla parte più fragile di sé stessi”. Una parte della personalità molto spesso negata, che devono innanzitutto scoprire, poi riconoscere, e infine dargli un nome.
Bisogna innanzitutto comprendere l’immenso sforzo richiesto ai bambini, chiamati a confrontarsi con nuovi tratti della loro personalità, spesso velati da esperienze di vita traumatiche: “Porsi le domande ‘Chi sono?’ e ‘Chi voglio diventare?’ rappresenta il primo passo verso un percorso di crescita che devono accogliere senza costrizione”, sottolinea Padre Kizito. Anche per questa ragione, è fondamentale offrire loro un tipo di affetto mai sperimentato prima, un affetto capace di risvegliare una parte di sé, repressa da paure e violenze, che solo un atto d’amore può liberare.