«Sono catanese, ma inizio a conoscere e frequentare San Berillo negli anni 80, quando avevo 23 anni» mi racconta Franchina, transgender di 60 anni e prostituta da 44 anni. «Mi sentivo completamente a mio agio in quelle strade e su quei marciapiedi così stretti che potevano ospitare a stento un piede 41» continua. «San Berillo io l’ho sposato, qui ho speso gran parte della mia vita, per costruirvi con sacrificio e rassegnazione un futuro senza certezze» aggiunge. «Se questo quartiere fosse uno stato sarebbe anarchico, se avesse una bandiera sarebbe indubbiamente un arcobaleno, se fosse una fabbrica sfornerebbe peccati, se fosse una casa avrebbe quattro porte, se fosse un quartiere… questo è San Berillo».
Nel cuore della Catania barocca, si trova quello che era considerato il più grande quartiere a luci rosse del Mediterraneo: San Berillo. Un quartiere carcassa, eppure profondamente romantico. Un corpo morente tenuto in vita dagli ultimi, dagli indicibili: prostitute, travestiti, “puppi”. Coloro che non lo hanno mai abbandonato e che mai lo faranno: le Belle di San Berillo.
Un quartiere carcassa
Qui, fino alla metà del Novecento, convivevano circa 30mila persone tra artigiani, bottegai e prostitute. Poi, nel 1957, il quartiere è stato completamente sventrato e le porte delle sue case murate, in previsione di un risanamento urbanistico che non è mai avvenuto. Oggi il quartiere appare come un corpo estraneo alla città, sebbene indissolubilmente legato a essa. I suoi confini sono ben definiti. Le abitazioni diroccate, le strade strette e l’odore del “piscio” lo separano dal resto del centro. Ma la pietra lavica e i colori scuri di quelle macerie, fanno da tramite con la città circostante. I suoi vicoli sono paragonabili a ferite che mostrano carne viva. E dove finiscono, inizia o termina il destino di chi va a cercar sollievo.
È un territorio difficile quello di San Berillo, dove tutto è estremizzato e dove l’omologazione non esiste. Eppure, già dalla prima volta in cui vi misi piede, ho sentito che non sarebbe stata l’unica. Mi sono trovata di fronte a un microcosmo di storie, sensazioni ed esperienze più disparate. Ciò che si avverte subito è il profondo legame che le Belle hanno con questo quartiere.
Il degrado qui è lampante. Le case sono fatiscenti, prive di acqua ed elettricità, i muri scrostati e senza intonaco, con specchi appesi ovunque. Le stanze da letto con materassi al limite dell’usura, con sopra solo un telo e dei guanciali ingialliti. In alcune stanze, a terra si può trovare un tappeto, per nascondere il pavimento senza piastrelle. Tavolini e vecchi comò per poggiare i trucchi e gli “arnesi” da lavoro. Candele consumate, vecchi catini per lavare i clienti o da usare come water. Questo è l’arredamento di quasi tutte le case delle Belle.
Un microcosmo di storie
Nonostante le condizioni siano così avvilenti, malgrado qui non si guadagni più come un tempo, le Belle non hanno mai voluto abbandonare il quartiere. Hanno visto queste case invecchiare con loro. In queste mura, hanno costruito legami di amicizia e di amore, hanno nascosto le loro debolezze, lo sconforto, la paura. Qui si sono sentite tante volte sole, una solitudine «che ti incattivisce» spiega Cioccolatina, transgender catanese e a San Berillo da 30 anni. «Io non sono cattiva, ti ci fanno diventare» dice, «la gente che per le strade della città ti guarda con pregiudizio, come un emarginato della società, è la stessa che viene qui a cercarti segretamente. È la stessa che ti fa sentire solo, arrabbiato, cinico, ma è anche la stessa che vuole con noi appagare la sua solitudine» conclude.
E poi c’è anche chi, come Rosaria, una donna campana, fuggita da violenze domestiche, arriva a San Berillo nel 1983 e non lo lascia più. «Avevo solo 17 anni, con due figli e un compagno che mi picchiava ogni giorno, costringendomi a prostituirmi» racconta, «sono riuscita a fuggire grazie ad una mia amica, arrivando qui con i miei figli. Non sapevo come sfamarli, a San Berillo c’erano tante case di appuntamento, avevo già fatto la prostituta, iniziai a lavorare per una di queste. In tutti questi anni tante ne ho passate, ma niente è paragonabile a quello che ho vissuto con quell’uomo. Io qui, sembra assurdo, ma mi sento a casa, sento di avere un posto in questo mondo. In questo quartiere non ci vivo, ci lavoro soltanto, eppure quando mi sento sola, vengo qui, perché so che trovo qualcuno disposto ad ascoltarmi».
La sedia e gli specchi a San Berillo
È evidente come per Franchina, Cioccolatina, Rosaria e tutte le altre Belle di San Berillo, le case non si siano mai chiuse. Ognuno di loro, da anni ormai, trascorre le proprie giornate seduta su una sedia a fianco della propria vita, in attesa di vedere o essere visto, di dare o ricevere. Se la sedia è vuota, l’attesa è terminata.
Basta varcarne la soglia e guardarsi allo specchio, uno dei tanti presenti, e vedere come ci si veste e ci si spoglia di sogni e paure. Di desolazione e allegria. Di trasgressione e preghiera. Di invidia e compassione. Di inganni e verità. Per perdersi e riconoscersi, scoprire una bellezza fugace e un essere invece eterno. Gli specchi di San Berillo mostrano un uomo o una donna, che si racconta senza filtri o ipocrisie, ma con la dignità di chi si sente sé stesso a dimostrazione che non è il genere che conta, ma l’umanità.
Ogni loro ruga, così come ogni crepa delle loro case, racconta con delicatezza una moltitudine di solitudini, di vite attese e disattese, rievocando un eros per alcuni deviato, ma in fondo disperatamente vitale.
Award
- 19° Portfolio dell’Ariosto 2020, Garfagnana (Lu) | 2° posto
- Premio Portfolio Italia 2020 | Finalista
- Moskow Intern. Foto Award 2021 | Bronze Awarded Editorial Photo-Essay