Goran era un paracadutista serbo ed è morto nel 1999, in Kosovo, colpito durante un bombardamento della NATO. Jovanka è sua madre e mi apre le porte della sua casa in Serbia per raccontarmi come si resiste con addosso la ferita peggiore: sopravvivere a chi hai messo al mondo. È una ferita che ti lascia agonizzante: respiri ancora ma sei senza scampo.
A portarmi da lei è Slavica, insegnante di italiano originaria di Niš. Mi aspetta alla stazione di Ćuprija con il migliore amico di Goran e una donna che non conosco. Rimaniamo tutti e quattro in silenzio con la campagna serba che ci scorre accanto mentre l’amico di Goran guida piano verso la destinazione. Vive sola in un paese tranquillo in cui ha cresciuto i figli, in cui ha fatto l’insegnante, da cui non è mai voluta andare via.
L’appuntamento è di fronte al palazzo in cui abita ma poi, quasi arrivati, ci chiama e cambia i programmi. Slavica mi spiega che vuole incontrarci davanti alla scuola in cui lavorava. Ora, quella scuola porta il nome del suo paracadutista perduto. È proprio nel cortile che circonda la scuola, un palazzo grigio come tutti gli altri, che il comune ha fatto costruire un busto che raffigura Goran.
Scesa dall’auto è così che vedo Jovanka per la prima volta: inginocchiata davanti al suo Goran in pietra. Capelli lunghi e bianchi, una gonna e una maglietta nere, sono nere anche le scarpe.
Slavica la chiama e lei si volta e ci fa segno con la mano di avvicinarci. Quel giardino e quella statua sono il suo piccolo tempio. Sul volto ha un reticolato di rughe profonde. Mi fa una carezza: “Passo così tanto tempo qui, la mia vita è tutta qui”. Lo dice con una tristezza che non sembra più tristezza, con la pace di chi ha perso e si è rassegnato.
Mi suggerisce di fare foto e io, per darle soddisfazione, cerco di farne da tutte le angolazioni. Avverto il suo sguardo su di me mentre inquadro i lineamenti di Goran e le lettere in cirillico che ne compongono il nome. Vuole farmi vedere anche la via che gli è stata intitolata. Mi tiene la mano tra le sue, sottili e macchiate dalla vecchiaia, e mi guida tra le strade. Vuole che faccia foto anche lì, quando arriviamo: è fiera di vedere in giro per il paese il nome del figlio. Spera che così nessuno se ne dimentichi anche quando lei non ci sarà più.
A che ti aggrappi quando un lutto così ti aggredisce alle spalle? Forse solo alla memoria. Il tour è finito e ci dirigiamo, piccolo gruppo in processione, verso casa di Jovanka.
A casa di Jovanka
Ci fa sedere in cucina, alle pareti foto di Goran bambino poi giovane poi uomo. Lei va in camera da letto. “Devo prendere delle cose”. Torna poco dopo con una scatola. Si siede con noi e inizia a tirare fuori, piano, album di foto, ritagli di giornale nei quali si parla di suo figlio, della guerra in Kosovo, libri di poesie. Uno dei libri lo ha scritto lei. C’è anche una targa d’oro vinta sette anni fa: miglior poesia a tema patriottico. Mi avvicina la targa e passa l’indice ossuto sulle parole incise che sono il titolo del suo componimento.
Mi porta una tazza di tè, si siede di nuovo, le chiedo di parlarmi di Goran, dell’uomo che era. “Mio figlio è la mia poesia. Era un uomo buono, aveva ancora tanti progetti. Un giorno c’era una manifestazione della sua brigata, in città. Erano già tutti allineati quando sono arrivata, un po’ in ritardo. I soldati hanno tanta disciplina ma quando mi ha vista si è comunque girato e mi ha mandato un bacio”. Poi continua, indietro nel tempo a recuperare ricordi. Mi dice che Goran ha mosso i suoi primi passi proprio nel giardino in cui ora c’è il suo busto: “È una strana coincidenza”. “Lui era un eroe, era lì per combattere i terroristi, ha combattuto da ufficiale per otto anni”, e io non so che dire.
Poi mi racconta che lui, come comandante, non ha mai abbandonato un soldato. “Mai, era sempre in prima linea. I suoi soldati erano sempre dietro di lui, mai davanti”.
Il mio e il suo tè sono diventati freddi: lei mi parla senza sosta e io la fisso negli occhi mentre la ascolto. “Per salutarmi, prima di una missione importante, sorvolava il nostro palazzo con l’elicottero da cui si sarebbe poi buttato. Ha fatto un giro su questo palazzo anche prima di morire. È passato anche sopra il suo liceo, quel giorno. Forse aveva un presentimento e ha salutato i posti importanti della sua vita. Volevo impedirglielo, non volevo che facesse il soldato ma non ho potuto fare niente”. Si abbassa la voce di Jovanka e si abbassa anche il mio sguardo ma riprendiamo subito.
“Era generoso, la sua anima non era pronta a tutto questo”. Mi dice che era altruista, che amava profondamente i suoi soldati come si amano dei fratelli o dei figli. Goran le diceva che se avesse visto il coraggio e la forza in quelle facce giovani forse avrebbe capito e accettato quella scelta.
Scuote la testa e dice “trentasei”, perché trentasei sono gli anni che Goran ha vissuto. Mi parla della sua passione per gli animali e per i fiumi. Mi legge una poesia che ha scritto per lui. Si chiama La soglia della memoria e l’ha letta quando hanno inaugurato il busto che raffigura suo figlio. “Piangevano tutti. Ti ripeto, lui era la mia poesia”. L’ha recitata su quel prato dei primi passi di cui mi parlava “che è dove il cerchio della sua esistenza si è chiuso”.
Mi dice che non accetterà mai quello che è successo, che a riconoscerne il corpo è stato il fratello, e questo l’ha salvata. Aggiunge che non si parlerà mai di lui come un “defunto” perché lui, in realtà, non può morire “per quanto grande è stato”.
“Quello che non mi fa rassegnare è il fatto che tutto questo poteva essere evitato. I cattivi non puoi migliorarli ed è per questo che non riesco nemmeno a odiarli. Il nostro Paese però non doveva sacrificare i suoi figli. Doveva averne cura. Non doveva permettere che i nostri figli venissero uccisi”.
È arrivato il momento di salutarci; quando mi alzo mi chiede di avvicinarmi. Prende la scatola che aveva poggiato sul tavolo per farmi vedere che non è del tutto vuota. Mi dà una copia del suo libro di poesie e mi fa una dedica. “A Rita, con grande affetto. Jovanka”. Me lo porge e io, riconoscente lo poggio al petto, vicino al cuore. Dalla scatola tira fuori un cappello da paracadutista e un attestato. C’è sopra il suo nome, le è stato rilasciato due anni fa. Sorride compiaciuta, annuisce.
Si è buttata anche lei, da un paracadute. Si è buttata a ottant’anni e vuole rifarlo tra tre. Lo ha fatto per Goran. Per capire cosa sentiva quando si gettava da un portellone e volava senza terra sotto i piedi. Lo ha fatto per sentirsi più vicina a lui. “Non posso stringerlo più, ma magari in cielo siamo più vicini”. Tremila metri e quaranta secondi di volo libero. “Non mi aspettavo fosse così l’impatto con l’atmosfera. Ero vicina a Goran e a Dio”
Un modo per non affogare
Me la immagino, Jovanka, con la sua tuta per volare, i capelli bianchi, le rughe che tagliano le guance ad affrontare la paura e l’adrenalina del salto e mi cadono due lacrime sulla tovaglia di plastica.
Questa donna anziana mi spiega così, con un salto nel vuoto e un cappello verde sul tavolo, che ognuno trova il proprio modo per non affogare quando crede di non avere più salvezza. Mi conferma che l’amore di una madre non conosce spazio e tempo, condizioni. Esiste e ci sarà fino all’ultimo dei giorni.
Mi dà un bacio sulla fronte, saluta gli altri tre, scende con noi per le scale e ci accompagna fino all’auto. Mi volto e dal finestrino la vedo, con i vestiti neri, ferma sul marciapiede a guardarci mentre ci allontaniamo, con la mano magra sollevata
Jovanka è morta pochi mesi dopo il nostro pomeriggio insieme, non è riuscita a lanciarsi di nuovo da un aereo. E io, da sempre terrorizzata dal pensiero dell’eterno e rassicurata invece dall’idea del nulla, la sera in cui è morta ho sperato che invece un eterno esista. E che, in quell’eterno, tutte le Jovanka della storia dell’uomo siano finalmente e di nuovo accanto al proprio Goran.