Di capitali, spaghetti e confini

A metà tra l'Europa e quello che l'Europa non è
di Elena Casolaro
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Turchia | ©Elena Casolaro, 2024

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Quello che conta è l’aria.
È lei che ti entra dentro e ti fa capire dove sei davvero. 

Ani, Turchia

Qui è fresca e sottile, nelle ore centrali si lascia appena arrotondare dai raggi del sole. Le quattro corsie asfaltate di fresco tagliano distese di erba secca: fra pochi mesi sarà tutto coperto di neve. Qualche baracca qua e là, una città col suo bazar, un minareto che scandisce l’ora della preghiera. Poi niente, per centinaia di chilometri. Il cielo non tradisce una sola nuvola in quindici giorni. È aria in tre dimensioni, ed è così profondo che mi sembra di non aver mai visto un cielo prima di questo. 

Il puntino azzurro del gps si ferma ben oltre i confini politici di mamma Europa: siamo nell’altopiano turco-iraniano, tra i 1500 e i 2000 m di altezza. Attorno a noi, le zone “calde” del Medio Oriente: niente lo farebbe pensare, se non i posti di blocco che si presentano puntuali due o tre volte al giorno. 

Nel villaggio vicino ad Ani, antica capitale del regno armeno, l’asfalto sparisce. Buche, terra battuta e muretti a secco delimitano le case, una buona percentuale ha il tetto sfondato. È estate, perciò non ci rendiamo conto di quanto questo luogo sia climaticamente estremo. Grazie a quota e latitudine, in inverno questa zona va abbondantemente sottozero. Di alberi, nemmeno l’ombra. Mi domando come si scaldi la gente qui, e la risposta arriverà presto. 

Turchia | ©Elena Casolaro, 2024

Nascere in un luogo remoto

Scendo dal furgone per scattare una foto: ogni angolo ha un’idea che vorrei essere capace di rendere con un’immagine. Mi nota una signora: non ci sono altri turisti e non passiamo affatto inosservati. Ci invita tutti ad entrare in una minuscola stanzetta dove sta essiccando degli spaghetti nel forno, per usarli come provviste nella stagione fredda. Non parla una parola d’inglese ma, traduttore alla mano, ci capiamo. 

Mette alcuni degli spaghetti in una busta di plastica e ce li offre con un sorriso aperto. Nel frattempo le due figlie arrivano con un vassoio pieno di bicchierini dal contenuto bianco. Abbiamo appena fatto colazione, ma non possiamo rifiutare questa specie di latte salato e acidulo che ormai abbiamo imparato a conoscere. Ognuno adotta la sua strategia di difesa: bere a piccoli sorsi cercando di non tradire smorfie, bere velocemente così da togliersi il problema (questo si rivelerà controproducente quando i nostri ospiti si avvicineranno a riempire il bicchiere), oppure appiopparlo a qualcun’altro.

La figlia maggiore si chiama Merve e parla un po’ di inglese. Lo fa in modo dimesso, e arrossisce quando non si ricorda qualche termine. Ma il padre si fa passare il cellulare con il traduttore: “Mia figlia va a scuola, è lì che ha imparato l’inglese”. Lo dice con gli occhi, quasi più che con le parole che appaiono sullo schermo. 

Il combustibile con cui la donna sta cuocendo gli spaghetti desta parecchia curiosità: apprendiamo che si tratta di mattoni di sterco animale essiccato. È con questo che gli abitanti dell’altopiano si scaldano d’inverno. La mamma è incinta. Aspetta la quarta figlia, ancora una femmina. Un brivido di emozione mi corre giù per la schiena, immaginando una nuova piccola vita in un luogo remoto come questo. 

L’aria che respiro ancora

Arriviamo alle rovine di Ani al tramonto. Si tratta di una specie di sito archeologico frequentato quasi esclusivamente da turchi, ma adesso è deserto. Non accettano le carte e noi abbiamo finito le turkish lira, allora ci frughiamo nelle tasche in cerca di spiccioli, e alla fine racimoliamo abbastanza per entrare. 

Un bambino con la faccia sporca di terra e gli occhi azzurri si avvicina subito, portando in mano un mucchio di collane. Le ha fatte lui, al posto delle pietre preziose dei ceci freschi, ancora verdi, raccolti o rubati nei campi. Compriamo la sua collana, la indosso attorno al collo mentre si avvicinano altri bambini: hanno tutti meno di dieci anni. Chiedono soldi. Darglieli sa di sbagliato, gli allunghiamo noccioline, una pesca, un pacchetto di crackers. 

Mentre attraverso il portale di pietra dell’antica città, il muezzin comincia a cantare. Gli altoparlanti sparpagliano il suono al vento, va a sbattere contro le rovine e rotola insieme alle salsole spinte dal vento. A occhi chiusi respiro una boccata dell’aria di questo momento: ce l’avrò ancora dentro mesi dopo, al momento di scrivere queste parole. 

Sono dentro la città delle scimmie del Libro della Giungla, con le costruzioni di pietra che recano ancora gli ornamenti e i colori originali. Gli ultimi raggi della giornata danno alla scena una veste preziosa, ogni minuto cambia l’atmosfera. Il canto del muezzin viene dalla moschea in rovina, ancora utilizzata come luogo di culto. È a picco su un canyon, contorno del fiume a meandri che marca il confine con l’Armenia. L’acqua, un paio di centinaia di metri più sotto, è torbida e bianca: scorre veloce. Le pareti sono punteggiate di cavità tondeggianti, forse antiche necropoli. 

La strada per andare di là non esiste

Sulle colline al di là del confine sventola una bandiera rossa, blu e gialla. Per una figlia dell’Unione Europea è difficile credere che non esista una strada per arrivare in Armenia, a venti chilometri di distanza.

Il buio si mette in mezzo tra noi e questo luogo, lo assottiglia sempre di più mentre ci avviamo verso l’uscita. Non c’è più nessuno, fuori, neanche i bambini. È rimasto solo un cane che ci gira intorno sperando in un qualche avanzo di cibo. C’è vento: mangiamo e ci rinchiudiamo nel furgone a vedere un film, degna fine di una giornata densa di strada e di cuore.

Torna il sole ed è un altro giorno, e i chilometri ricominciano a scorrere sotto le ruote in queste strade dritte. Incontriamo altre persone ed altre storie, una bambina con una felpa gialla e occhi enormi che mi chiede di fare una foto. Gliela mostro e sorride, scalza, nell’imbarazzo di chi sa cosa dire ma non come dirlo. Io invariabilmente piango. Poi ancora campi riarsi, minareti, ritratti del Presidente e strade. E aria, che è il sapore di questo Paese, a metà tra il mondo conosciuto e una terra diversa, di persone capaci di adattarsi a quello che hanno e di offrire anche quello che non hanno. Appena più che a metà tra l’Europa, e ciò che Europa non è. 

Testo e Foto:  Elena Casolaro
Testo originale in Italiano - Traduzione interna
Turchia
Ani, Turchia
DooG's Contributor
Elena Casolaro
Italia
Journalist

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