Considerato il viaggio per eccellenza, il Camino de Santiago è il più conosciuto e probabilmente tra i più antichi itinerari che ogni anno portano in Galizia migliaia di persone. C’è chi lo vive come pellegrinaggio di fede e chi lo affronta in chiave laica, come un’esperienza interiore o come una tappa immancabile da segnare sulla mappa di un viaggiatore che si rispetti. Anche a me è capitato di pensare diverse volte a due grandi viaggi che avrei voluto fare prima o poi nella vita: arrivare a Pechino lungo la Transiberiana e a Santiago de Compostela con zaino in spalla e le mie gambe. Mai però fino a oggi avevo pensato di ritrovarmi con un casco in testa, percorrere circa 5mila chilometri e arrivare fino in Piazza Obradoiro, a Santiago de Compostela, in sella a una moto. E invece non solo è accaduto, ma è successo nel giorno “perfetto”: il 25 luglio del 2021, durante l’Anno Xacobeo o Anno Santo Giacobeo. Quest’anno infatti, il giorno della commemorazione di San Giacomo, il 25 luglio appunto, è caduto di domenica. Tale ricorrenza si verifica solitamente ogni cinque o sei anni, alcune volte però, è necessario attendere anche undici anni per poter vivere l’anno santo.
Un cammino in sella a una moto
Da questa premessa mi si potrebbe facilmente immaginare in sella a una moto a macinare chilometri ma è vero solo in parte, perché a guidarla non ero io, che a stento so cos’è un motore! Ho avuto la fortuna di essere una passeggera, e testimone del fatto che un pellegrinaggio – o cammino che sia – si può affrontare con la stessa intensità, indipendentemente dal mezzo che ti porta alla meta o dalle motivazioni che ti spingono a intraprenderlo. I miei compagni di viaggio sono state persone che da vent’anni hanno unito la passione per la moto a missioni umanitarie in tutto il mondo, dando vita nel 2001 all’associazione MotoForPeace. Quest’anno per commemorare il ventesimo anniversario della sua fondazione l’associazione ha deciso di intraprendere il Camino de Santiago, ovviamente in moto, un mezzo che si potrebbe quasi definire un’estensione di loro stessi e che ormai li accompagna in tutto il mondo. Quando si pensa al Camino de Santiago, o si ascoltano i racconti di chi lo ha vissuto, sembra che farlo a piedi sia il modo migliore per viverlo. Credo invece che qualsiasi percorso abbia più strade possibili, a ognuno sta poi scegliere quale intraprendere. Sicuramente le esperienze saranno diverse, ma il bello risiede proprio in questo: nelle differenze. Così come il senso del nostro viaggiare risiede nel viaggio stesso, a prescindere dalla strada, dal mezzo e spesso anche dalla meta.
Siamo partiti in venti con 15 moto, ognuna con un numero adesivo attaccato davanti sul parabrezza, ognuno un tassello fondamentale di una colonna. Eh sì, perché viaggiare in moto, soprattutto in gruppo, non è di certo un anarchico pasticcio di ego e follia: ci sono delle regole e bisogna avere una buona dose di buon senso. Ognuno è responsabile di se stesso, ma ha occhi anche per l’altro. Le distanze di sicurezza tra una moto e l’altra vanno necessariamente rispettate e si cerca di restare in colonna, senza spostarsi troppo al centro della carreggiata, in modo che il capofila possa meglio controllare che tutti siano al passo. E se dovesse capitare che non si accorga di qualcuno rimasto indietro, gli ultimi avvertono chi li precede, in modo che si possano fermare appena possibile e ricompattare il gruppo. A volte capita che l’andatura sia quella da crociera, ognuno però sa che deve pazientare, perché c’è sempre una buona ragione che giustifica questa scelta. Importantissimo è il rifornimento, necessario alle moto ma anche un’ottima scusa per sgranchirsi le ginocchia scricchiolanti, schiena e spalle rigide. Noi generalmente ci siamo fermati per fare benzina ogni 150 chilometri, con o senza serbatoio a secco, perché la cosa più importante di tutte è avere il pieno. Quello che riserva la strada è sempre un mistero, gli imprevisti sono spesso in agguato e non bisogna mai farsi trovare impreparati.
La partenza in un giorno d’estate da una Roma semi deserta
Era il 17 luglio, all’alba di un mattino dal sapore tutto romano, quando i motori si sono accesi. Ero seduta dietro a Valter, in sella alla sua “pupa” gialla, la numero 10, diretti verso il Vaticano per ricevere la benedizione del cardinale Peter Turkson, Prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale e grande sostenitore delle spedizioni di MotoForPeace. Le strade di Roma semi deserte, indorate da una luce quasi onirica, le facevano perdere quell’aria altezzosa che spesso assume, mostrandola quasi penetrabile e perdutamente bella. Una leggerissima foschia abbracciava tutta la colonna delle moto, lo vedevo perfettamente dalla mia posizione in coda. Avevo davanti una colonna di uomini pronti a percorrere la via Francigena per poi spingersi fino in Francia e poi ancora in Spagna, lungo il cammino di Santiago, ognuno con i propri pensieri chiusi nel casco.
Il primo giorno abbiamo ripercorso diverse tappe note ai pellegrini diretti a Roma, come Sutri, Bolsena, gli antichi centri medioevali di San Quirico e San Gimignano. Sole e pioggia si sono alternati, dando un ritmo diverso all’andatura e soprattutto alla temperatura, a tratti soffocante. A differenza del giorno seguente, che ci ha visti attraversare Lucca, Sarzana e infine Genova, per poi passare il confine e arrivare in Francia, dove il caldo torrido di luglio non ci ha dato tregua.
La tratta francese è stata forse la meno avvincente, fatta per lo più di traffico, autovelox e caselli autostradali, che disperdevano le moto, costringendoci a frequenti soste per riunire il gruppo. Cercarsi negli specchietti retrovisori è stata una costante, con un caldo esagerato, amplificato da quello dei motori roventi. In circostanze del genere si diventava più intolleranti e una pausa per rigenerare la mente e il corpo era doverosa. Iniziava così un dialogo fatto di gesti e segnali vari tra i motociclisti che portava tutti verso un’unica meta: la pausa caffè. In questi momenti goliardici e di ristoro, riflettevo su quanto fosse essenziale l’affiatamento del gruppo in viaggi del genere. E anche come le peculiarità di ognuno di loro siano state fondamentali per creare e mantenere un equilibrio generale. Non avevo davanti a me unicamente motociclisti fanatici, esperti o sprovveduti, quelli da bar o da pista. Avevo di fronte uomini, ognuno a suo modo, con le proprie debolezze o punti di forza, chi più espansivo, chi timido, chi più tollerante, chi meno, il logorroico e quello di poche parole, il preciso, il puntuale e il ritardatario o casinista. Tutti, però, accomunati da un unico denominatore comune: la moto, considerata quasi come una parte di loro stessi. Eclatanti erano per me – che non sono una motociclista – le soste durante le quali le moto venivano accarezzate, ascoltate, controllate, personalizzate con gadget acquistati nell’area di servizio assieme a uno snack. In questo viaggio ho imparato che per un motociclista la moto non è solo un mezzo, ma una vera e propria compagna di viaggio, e come tale va trattata.
Ultreia! e il nostro Andiamo!
Ultreia! Sulle vie giacobine può capitare spesso di sentire questa espressione tra i pellegrini. Si tratta di una forma di saluto o incoraggiamento, che sta a significare “andiamo avanti” o “andiamo oltre”. Sorridevo ogni volta che lo sentivo, perché mi veniva istintivo paragonarlo a quel Andiamo! che Bernardo, il capogruppo, non perdeva occasione di ripetere, anche a più riprese, a ogni sosta. E come un rito si vedevano alieni equipaggiarsi con calma e cura: giacca, cuffia, casco, guanti, qualche pacca sulla spalla, occhi sorridenti, rombo di motori, la colonna che riprendeva lentamente forma e via di nuovo in strada. Anche in situazioni apparentemente semplici o banali come queste, veniva comunque fuori quel senso di unione e comunità che solitamente si vive nel Camino de Santiago tra i pellegrini e che a quanto pare non fa distinzioni se si indossa un casco o se si ha un bastone in mano.
Il paesaggio iniziava a mutare e con esso il clima, i profumi, l’atmosfera. Stavamo entrando nel vivo del cammino. Eravamo a Roncisvalle, pronti a varcare i Pirenei. Qui ci è stata consegnata la Credencial del peregrino, una sorta di passaporto che avrebbe raccolto tutti i timbri degli ostelli dove avremmo alloggiato. Questa volta era Marco con la sua moto “la più bella di tutte”– come spesso sottolineava – a condurmi verso i boschi della Navarra. La strada era un serpeggiare continuo di curve. Equilibrio e fiducia nei confronti di Marco ci permettevano di avanzare con movimenti sincronizzati e fluidi. Riuscivo addirittura a girarmi e vedere questa volta la colonna da davanti. Le moto avevano tutte la stessa andatura e si piegavano a ogni curva con identica angolazione. Pini odorosi, betulle, castagni, aquile che si libravano in volo, ponti medioevali rendevano l’atmosfera quasi surreale, al punto che sarebbe potuto sbucare il paladino Orlando con i suoi cavalli da un momento all’altro. Ultreia! Gli avremmo gridato, o banalmente “Andiamoooo!”.
Santiago de Compostela e il nostro chilometro zero
E si andava, eccome se si andava! Sempre più in là, sempre più avanti, dove frecce gialle su cartelli blu indicavano. La tratta spagnola è stata un alternarsi di emozioni, colori, odori, panorami da togliere il fiato. Si è passati da cattedrali gotiche a castelli, da città a borghi minuscoli sperduti tra i monti dove mucche, capre e galline scorrazzavano da una parte all’altra. Il tragitto da Burgos a Leòn è stato particolarmente sentito, sotto più punti di vista. Rettilinei che iniziavano senza sapere dove finivano tagliavano in due le mesetas spagnole – altopiani desertici di campi di grano sconfinati dal colore giallo intenso, stampati su un cielo azzurro saturo. Esattamente come il giallo della conchiglia stilizzata a nove raggi su fondo blu, il simbolo per eccellenza del Camino. Superare le mesetas è stato impegnativo. Il sole era agguerrito quel giorno, sentivo le mani bruciare, le labbra seccarsi e sotto la giacca un caldo insopportabile. Nessuna curva all’orizzonte a intervallare il ritmo della strada. Faticoso per me, ma ancor di più per i miei compagni che guidavano le moto. Era frequente vedere qualcuno mettersi in piedi, da un lato per prendere aria e rianimare gli arti inferiori ormai assenti, dall’altro per godersi meglio quello spettacolo della natura. Probabilmente per alcuni di loro i pensieri bruciavano più del sole. Ognuno in questo viaggio aveva portato con sé qualcosa: chi stanchezza accumulata da lavoro, chi zavorre pesanti e opprimenti da voler regalare al vento, chi bei ricordi da continuare ad assaporare lungo la strada. A volte a guardarli mi chiedevo come tanto rumore, meteo ostile, concentrazione, adrenalina, precisione per la meccanica, potessero andare di pari passo con la pace e quel senso di leggerezza che trasmettevano una volta scesi dalle loro moto. Credo ci siano luoghi, momenti o situazioni in grado di stringerci il cuore, se connessi alle nostre passioni.
Forse è questa la risposta.
Un momento del genere è stato sicuramente attraversare in moto le strade di Santiago e vedere spuntare dal nulla le guglie della sua Cattedrale per ritrovarci dopo poco davanti la sua grandezza in piazza Obradoiro. Era il momento di mollare tutto – caschi, giacche, moto – e concentrarci sui nostri pensieri. Musica celtica suonata da qualche gaitero accompagnava i nostri passi. Era l’arrivo: una somma di distanze superate a piedi, in bici o in moto, converse in un unico punto. Era il disegno di un cammino che prendeva forma. Un punto per ripartire da zero, o per arrivare allo zero, e andare ancora oltre, ancora avanti, fino alla fine del mondo.
Ultreia, quindi, … e buen camino!