Gennaio 2019
Dopo 72 ore di viaggio, tre aeroporti, estenuanti ore di attesa, finalmente è Venezuela. L’emozione di Jessica: “La senti l’aria? Questa ha un odore diverso, lo stesso di quando ero bambina”. Sono già quattro anni che manca dalla sua seconda casa.
Questa volta mi ha chiesto di accompagnarla: prova a riprendere la gestione dell’hotel ereditato dai nonni, dove ha lasciato i suoi ricordi più belli quando, con l’aggravarsi della crisi economica, è stata costretta a fuggire in Italia.
È sera quando vengono a prenderci. Un ultimo tratto in auto e siamo a casa, a Lecheria, una delle città che resta, nonostante tutto, tra le più ricche del Venezuela: da qui le compagnie petrolifere non sono mai andate via.
L’auto ciabatta sulla strada rattoppata. Aria umida, calda, pesante. Non sento alcun odore particolare. Cala il sole e la città resta sospesa nel buio. La via principale è illuminata solo dalle luci dei semafori e dai fari di vecchi macchinoni degli anni ‘70 ancora in circolazione. Lampioni fantasma aspettano invano le lampadine nuove. Sono appena le nove e le strade sono vuote, silenziose. I locali aperti si contano su una mano. Solo palazzi e case, protetti da alte mura cinte da reticolati elettrici.
Un paese spaccato
Sono le cicatrici del Venezuela, vittima di una crisi che dal 2013 stritola il paese, nonostante le più grandi risorse petrolifere e minerarie del pianeta. È la cattiva gestione delle ricchezze, prima da parte di Hugo Chavez, padre della revolucion venezuelana, poi del suo erede Nicolas Maduro? Perché l’ingenua idea della rivoluzione – di aiutare cioè lavoratori e poverissimi in un paese estremamente disuguale – si è rivelata un catastrofico insuccesso? Di fatto la statalizzazione forzata delle industrie, il crollo del prezzo del greggio e la crescente corruzione hanno portato al tracollo l’economia interna. In un paese senza agricoltura e ormai senza industria, completamente dipendente dalle importazioni, l’iper inflazione è diventata una condanna all’impoverimento per larghissime fette di popolazione.
Oggi il Venezuela è spaccato in due: da un lato una popolazione allo stremo, che ha perso tutto, compresa la speranza; dall’altro pochi fortunati che scelgono di restare e continuano a credere in una possibile ripresa. Jessica è qui proprio per provare a rimettere in piedi l’hotel Jupiter, l’albergo di famiglia. La struttura, lasciata per anni in gestione ai dipendenti, è infatti in pessime condizioni. I lavori di ristrutturazione si sono fermati alla hall e il resto dell’edificio appare come abbandonato. Non ci sono più televisori, vasellame da cucina, asciugamani, persino i cavi elettrici: facile merce di scambio per una manciata di monete. I corridoi spogli, le mura macchiate e le coperte ingiallite rendono l’hotel a quattro stelle un luogo desolato, lo specchio di un paese al collasso.
Jessica non se lo aspettava, il colpo è duro. Ma continua a essere fiduciosa: nel pomeriggio ha un incontro con un dirigente della PDVSA, la compagnia petrolifera nazionale, per discutere l’affitto dell’intero hotel ai suoi impiegati, trasformandolo così in abitazioni momentanee.
L’hotel Jupiter è situato poco fuori dal centro di Lecheria. Per raggiungerlo, ogni mattina lasciamo i quartieri bene, oasi di giganteschi condomini nascosti tra la vegetazione tropicale, ville con piscina, custodi e l’aria condizionata, dove si può ancora vantare una parvenza di vita normale.
Dieta Maduro
Appena fuori dal recinto dorato, invece, tutto cambia. Il risveglio è tra costruzioni fatiscenti e case popolose già oppresse in una calura estiva. Umanità varia calpesta la strada. L’impressione è che tutti siano estranei gli uni agli altri se non fosse per quella stanchezza che accomuna i volti. Ogni giorno è segnato da colas interminabili: lunghe attese sotto il sole per recuperare il poco cibo a buon mercato dispensato dal governo, per le medicine, il gas e – sempre più spesso – per l’acqua. L’iper inflazione affama il paese, manovra prezzi e moneta, divora stipendi ed esistenze. Il sueldo minimo, lo stipendio base, equivale a cinque chili di riso. Il prelievo in banca non può superare i 500 bolivares: tutto in Venezuela si paga con la carta di credito accompagnata dal documento di identità. lo non sono venezuelana: per comprare qualsiasi cosa devo ricaricare la scheda di Jessica dall’Italia, lei cambia gli euro in dollari e ciò nonostante è dura anche per noi. L’unica cosa che si riesce a pagare in contanti è la benzina: un pieno costa solo 2 bolivares. Per un chilo di riso ne servono 5mila.
Decine di esercizi commerciali sono chiusi, quelli aperti offrono articoli che solo poche persone possono permettersi. Patatine, salse e dolciumi sono sempre presenti sugli scaffali, mentre i beni di prima necessità – come le latte di sugo di pomodoro Concentrato – sono razionati: massimo quattro a persona. Il sistema di depurazione delle acque è malfunzionante, dai rubinetti sgorga un liquido giallastro, imbevibile, continui black out condannano il paese al buio per lunghissime ore. “È la dieta Maduro” ironizza Daniel, il tuttofare dell’hotel. La sua voce maschera a fatica la tristezza. Osservo la città dai vetri del suo fuoristrada rosso sgangherato, Jessica mi ha consegnata a lui per potermi muovere in sicurezza. Daniel mi consiglia di tenere un profilo basso: “Fotografare può essere pericoloso”, continua a ripetermi. Devo accontentarmi di un finestrino con il vetro tirato su per metà: è questa la mia finestra sul Venezuela. Chiedo a Daniel se è sempre la dieta Maduro a spingere ogni giorno decine di ragazzini fino alle porte dell’hotel, implorando per l’acqua: si presentano con bottiglie recuperate, spesso maleodoranti di carburante. Si potrebbe dar loro di più della semplice acqua: “Ma se oggi ne aiutiamo dieci, domani si presentano in venti, poi in trenta. Non abbiamo abbastanza per tutti”.
Lasciamo il caotico traffico del centro per umili casupole sparse lungo stradoni polverosi, gente che rovista nella spazzatura: “l più escono di notte”, racconta Daniel. “Si vergognano, non vogliono essere visti o riconosciuti”. Ma il sole è ancora alto, la fame non ha orario. Continui presidi di polizia o militari controllano le strade in entrata e in uscita dalla città: ”Neanche di loro ci si può fidare” afferma Daniel. “Sono pagati così poco che farebbero di tutto per una manciata di dollari”.
Nel cuore triste del barrio
Raggiungiamo il barrio la Aduana, uno dei tanti barrios che circondano Lecheria. Norma, una fidata dipendente dell’hotel, vive qui. Ci apre le porte della sua casa, una piccola struttura in mattoni dal tetto in lamiera, accogliente all’interno se non fosse per il caldo soffocante. Da quattro giorni mancano elettricità e acqua: “Non posso neanche offrirvi un caffè”, dice la donna, mentre ci sediamo sul retro di casa. Una leggera brezza tenta a fatica di superare le alte mura di protezione in cemento. Stipati sul fondo ci sono oggetti di ogni tipo, accatastati tra pezzi di lamiere e cisterne d’acqua vuote. Norma ci fa accomodare e inizia: “E alla fine arrivò Chavez. Qualcuno che diceva esattamente quello che avevo nella testa. Camminava per le strade, parlava con la gente. Imparammo ad amarlo e lui ci liberò dall’imperialismo. All’inizio il governo ci regalava le case, il cibo, i soldi, senza chiedere nulla. Non potevo immaginare che questo ci avrebbe condannato alla fame”.
Mi mostra il clap, la dispensa di cibo basico che il governo invia alle famiglie: qualche pacco di pasta, di riso, farina di mais, due litri d’olio, legumi come lenticchie o fagioli e, a volte, l’aceto. Una busta a famiglia, più un bonus di 800 bolivares. “Ora ci danno così poco che non riusciamo a mangiare tutti i giorni. Gli stipendi sono troppo bassi, si guadagna di più vendendo in nero per strada. In molti si accontentano di questo poco cibo e dei bonus in denaro del governo. È così che ci controllano, con la fame. Abbiamo creduto in un riscatto, e invece…”.
Mi accompagna per le strade del suo barrio. La casa è accanto al fiume, diventato un rivolo stagnante, maleodorante per la spazzatura, dove si affacciano piccole case in mattoni, in un contrasto di musica soffusa, e rombo di auto. L’estate dei Caraibi spinge a star fuori casa, all’ombra dell’uscio. Gli unici indaffarati sono i bambini, impegnati a trasformare le buste di plastica in aquiloni. Mi osservano curiosi. I miei capelli, i miei vestiti, il colore della mia pelle: tutto di me è fuori luogo, lì. Una signora del posto inizia a chiamarmi, chiedendomi di entrare in casa sua: “Esta se cae!”. Ha un tono preoccupato. “Esta se cae”, ripete concitata, indicandomi le grosse crepe che spaccano i muri. “Y con la Iluvia entra agua, esta se cae”. Non capisco il perché, poi realizzo: vestita bene e con la borsa della fotocamera a tracolla, mi ha scambiata per qualcuno del governo e mi chiedeva aiuto. Ma quando le dico che non lo sono, il suo volto si ammanta di delusione.
E niente ferisce, avvelena, ammala quanto la delusione.
Qui in Venezuela lo sanno bene.
Disillusione
Il Chavismo e la sua rivoluzione sono stati raccontati come una forma di riscatto per il popolo. Hanno illuso la gente, ma l’illusione si è mutata poi in rabbia, fino a cedere nella stanchezza. Le principali città sono diventate così teatro di continue manifestazioni che sfociano in violenti scontri. Le forze armate reprimono brutalmente la folla. Alla fine della giornata resta solo la conta delle vittime e la densità della paura. Per Maduro non c’è dubbio: i responsabili sono sempre gli USA con le loro sanzioni, i grandi imprenditori e l’estrema destra. Tutte forze imperialiste, coalizzate per distruggere la revolucion, mentre il paese dispera in un vero cambiamento.
Eppure, il 12 gennaio 2019, una manifestazione diversa riempie le strade delle principali città. Una figura nuova nella politica venezuelana, Juan Guaidò, sfida il regime di Maduro: un colpo di scena insolito, l’interesse mediatico richiama l’attenzione per quella terra al di là dell’oceano. Alcune istituzioni internazionali si schierano e permettono a Guaidò di autoproclamarsi presidente ad interim. Le forze armate lasciano sfilare il corteo e il governo in carica sembra in difficoltà per la prima volta. Forse si tratta di una svolta epocale. Jessica non mi affianca nella manifestazione. Preferisce restare a casa: non vuole mostrarsi apertamente contro l’attuale governo, teme per la sua attività. Così mi accompagna vicino al corteo, sente una coppia parlare italiano e mi presenta come una reportera.
Marco, un italiano ormai radicato in Venezuela, e la sua compagna Claudia si offrono di aiutarmi: “Qualcuno porterà la verità fuori dai confini”, dicono. Mi ritrovo così a sgomitare tra la folla con questi amici di fortuna: “No quiero bono, no quiero clap, lo que yo quiero es qui se vaya Nicolas”, urla la marea di corpi stipati in pochi chilometri di asfalto. Soltanto a Lecheria, migliaia di persone di ogni estrazione sociale si trovano fianco a fianco per una causa comune. Sono euforici, tutti lo sono, e così eccomi a condividere quell’onda di singolare speranza, come se una stasi durata anni potesse davvero essere lì lì per risolversi.
All’imbrunire la manifestazione è già conclusa. La folla si dirada e iniziano a girare voci sui primi scontri in un barrio lì vicino. Mentre torno a casa vedo il fumo denso dei copertoni bruciati confondersi con la coltre nera che ad ogni tramonto spezza l’orizzonte. Jessica è lì ad aspettarmi, preoccupata per il mio ritardo. Ha seguito la manifestazione sui social, mentre la televisione mostra ancora il corteo fantoccio architettato a favore di Maduro. La felicità è nei suoi occhi: sente che qualcosa si sta muovendo. Come potevamo immaginare quanto ci stavamo sbagliando? La disputa per il controllo de paese, infatti, si protrarrà nel tempo a scapito della popolazione e delle sue speranze frustrate.
Al ritorno in Italia, mi sono lasciata alle spalle un paese ancora in preda alla paura, ai continui black out, alla disinformazione, al disordine, alla fame, al disinteresse internazionale. La fugace festa è finita, assieme all’illusione di un rinnovamento.
Sono da poco passati due anni dal mio viaggio in Venezuela. Anche Jessica è tornata in Italia. Spesso le chiedo di Norma, di Daniel, della sua terra.
Ma lei abbassa sempre gli occhi: “Non è cambiato niente”.