Si chiama PEL Art Project.
È un collettivo di tre artisti, due ciprioti e un’armena, uniti da uno scopo comune: portare l’arte in contesti difficili come le case di cura e i centri di detenzione provvisoria per migranti. Si chiamano Pantelis, Liana ed Elena. Li ho incontrati a Cipro, l’isola divisa dall’ultimo muro d’Europa e prima tappa di un progetto che li porterà in Italia, Grecia e Armenia.
La luce cipriota di fine agosto è ancora tagliente, vibrante, nonostante si avvicini il tramonto. Oggi tutto sembra scorrere più lentamente, anche le parole. Forse la stanchezza, forse la difficoltà nel raccogliere e raccontare le emozioni della giornata appena terminata. Sono seduta attorno a un tavolo con i tre ragazzi del collettivo PEL Art Project per commentare l’ultima delle quattro giornate di un progetto molto particolare iniziato tra le mura di un centro di detenzione a Menoya, e terminato nel giardino di una casa di riposo ad Agios Antonios, qui a Cipro. È Liana Ghuk Asyan a parlare per prima. Grandi occhi neri, un fisico minuto ma dai gesti decisi, Liana è un’artista di origini armene che lavora da molti anni in Italia, a Milano. Accanto a lei Pantelis Nicolau, diplomato all’Accademia di Brera di Milano, insegna arte a Nicosia, la capitale. E poi c’è Elena Adamou, anche lei artista proveniente da Nicosia. PEL Art Project (PEL è l’acronimo dei tre artisti) è un collettivo creato con l’idea di lavorare in contesti sociali particolari quali case di riposo o strutture detentive organizzando brevi workshop di pittura il cui fine principale è quello di coinvolgere nella creazione di lavori artistici gli ospiti delle strutture, come nel caso dei migranti detenuti nel centro di Menoyia.
Cipro: l’ultimo confine d’Europa
L’obiettivo di PEL Art Project è quello di offrire un’esperienza nuova, diversa, lasciare un bel ricordo, un sorriso, trasmettere un po’ di benessere a chi sta vivendo in un contesto doloroso, di stress o particolarmente delicato e fragile.
“Io, Pantelis ed Elena abbiamo studiato insieme all’accademia di belle arti di Brera ed era da tempo che pensavo di organizzare qualcosa di bello con loro” racconta Liana. “Sono sempre stata molto affascinata dalla storia di Cipro e volevo partire da qui, avevo voglia di conoscere questo territorio diviso in due, perché come l’Armenia, il mio paese d’origine, è estremamente inciso geograficamente, diviso, occupato. Quest’isola è come una donna a cui è stato strappato un pezzo di vestito. Ho proposto il progetto a Pantelis ed Elena. Loro, entusiasti, hanno accettato, ed è così che è nato PEL Art Project. Questo di Menoya è il primo step di un percorso a cui teniamo molto. Vogliamo portare i colori dove non ci sono”.
L’Immigration Detention Centre di Menoyia si trova nel distretto di Larnaca. Anticamente nota con il nome di Cizio o Kition, Larnaca, posizionata sulla costa sud-orientale dell’isola, è la terza città di Cipro per popolazione dopo Nicosia e Limassol. Ogni anno a Cipro centinaia di migranti irregolari vengono trattenuti in condizioni equiparabili al carcere, anche per lunghi periodi di tempo, in attesa dell’espulsione.
In quest’isola segnata dall’ultimo confine d’Europa, la buffer zone – la zona cuscinetto tra la zona nord di Nicosia che fa parte della Repubblica di Cipro e quella sud occupata dai turchi, la Repubblica Turca di Cipro Nord, riconosciuta solo da Ankara – il flusso di migranti è iniziato più di dieci anni fa e tuttora prosegue. Cipro è attualmente il paese dell’Unione Europea con la maggior percentuale di richiedenti asilo rispetto alla popolazione. Ormai sono in 30mila nei campi di accoglienza: somali, afghani, siriani, pakistani, nigeriani. Un flusso di disperati che rimane invischiato ad attendere il verdetto di una richiesta d’asilo che non si sa come andrà a finire. Se la richiesta non viene accolta, il loro destino è il rimpatrio. Nel 2022 sono state 3.200 le richieste d’asilo rifiutate.
“Sono luoghi particolari” interviene Pantelis, “non comuni. Non sapevamo come i detenuti avrebbero preso la nostra presenza e loro, incontrandoci oggi in mensa, non sapevano neppure di cosa si trattasse. Ma quando hanno visto i colori, i pennelli, e i nostri tre sorrisi tutto ha cominciato a scorrere. E il murales, che abbiamo preparato all’interno della mensa, a poco a poco ha preso forma e colore con l’aiuto di tutti. Queste persone hanno bisogno di amore, di sorrisi e tanta pazienza per poter collaborare”.
Sul tavolo attorno al quale siamo seduti vi è distesa una mappa dell’isola. Alcuni punti sono segnati. Sono i luoghi che hanno programmato di visitare insieme. Liana, però, con il suo passaporto armeno, non può attraversare il confine che divide in due la città. Confini. Il filosofo Pier Aldo Rovatti sottolinea come la parola Etica venga da ethos, e Heidegger traduce questa parola greca non tanto con “carattere proprio dell’uomo”, ma con “soggiorno”, “luogo in cui si abita”, “regione aperta in cui l’uomo abita”: etica. Iain Chambers in Paesaggi migratori scrive: “È la dispersione che la migrazione porta con sé a sconvolgere e mettere in discussione i temi più vasti della modernità: la nazione e la sua letteratura, la sua lingua e il suo senso di identità; la metropoli; il senso di centralità; il senso di omogeneità psichica e culturale. Nel riconoscimento dell’altro, dell’alterità radicale, riconosciamo di non essere più al centro del mondo”.
Colori e gesti per portare un sorriso
Qual è il ruolo del colore in questa esperienza artistica? Mi risponde Liana: “I colori sono importanti e devono essere giusti per quella struttura, quindi c’è tutto un lavoro di organizzazione e scelta che facciamo insieme, come gruppo. Ma non è importante solo il colore. Anche il gesto lo è. Vogliamo coinvolgere le persone attraverso il gesto artistico della creazione. Il fine ultimo è quello di regalare dei momenti di benessere in contesti purtroppo lontani dal benessere perché difficili, tristi, quasi dolorosi. Il gesto rimane nella loro memoria” continua Liana, “e anche l’emozione che ne deriva. Non la chiamerei terapia, piuttosto un cuore che si unisce a un altro cuore per emozionare ed essere felice, anche se solo per brevi momenti”.
“Il dipartimento dei diritti umani e la Croce Rossa hanno avuto un ruolo fondamentale per riuscire a portare avanti questo lavoro di murales che è andato ben oltre le nostre aspettative” interviene Elena, sempre a proposito del progetto PEL. “Hanno partecipato in tantissimi, nonostante la diffidenza iniziale dei detenuti, cosa che evidentemente ci aspettavamo. Vedere queste persone, i detenuti ma anche gli ospiti della casa di riposo di Agios Antonios, dove abbiamo realizzato un bellissimo murales nel giardino della struttura, sorridere e condividere insieme quel momento di gioia, è stata la nostra più grande soddisfazione, come artisti e come persone. Magari alcuni, mi riferisco alla casa di riposo, capivano più di altri quello che stavamo facendo ma non importava perché si divertivano, ci ringraziavano e ci abbracciavano. È stato molto più forte di quanto mi aspettassi”.
Chiedo ancora a Elena se ha un ricordo particolare di queste giornate. Lei mi sorride: “ne ho molti. Alcuni di loro, mi riferisco ai ragazzi del Centro di detenzione, erano molto bravi, sembravano avere molta familiarità con pennelli. Inoltre il nostro disegno aveva molte aree di colore e loro si spostavano a lavorare su tutto il muro; insomma collaboravano e già questa come immagine per noi era molto forte. Ricordo un ragazzo egiziano molto giovane e timido nell’avvicinarsi. iIl primo giorno non è venuto, il secondo ha iniziato ad avvicinarsi a noi, poi ha preso in mano il pennello, lo poggiava sul muro girandolo a caso, non sapeva come fare. Il terzo giorno ha iniziato a tracciare delle linee, era anche contento, tanto che controllava se i colori fossero giusti e a un certo punto si è messo anche a dirigere gli altri. Si chiamava Mustafà. Era appena arrivato al centro. All’inizio non riusciva ad avvicinarsi a noi donne e poi invece ha cominciato a prendere più familiarità. È stato molto bello assistere a questa trasformazione”.
Elena ricorda poi gli ospiti del centro Agios Antonios, una nursing home dove vivono anche persone con disabilità intellettive: “a un certo punto mi sono girata e ho visto una signora immergere le mani nel colore. Il suo viso era sereno, come se giocasse, voleva dipingere con le mani sul muro. Un’immagine che mi è rimasta nel cuore”.
Girando nella zona nord di Nicosia, si vedono fili spinati e reticolati un po’ ovunque. Con il mio passaporto italiano non ho avuto difficoltà ad attraversare il doppio check point, greco e poi turco, che divide in due la capitale. Liana, come ho scritto, non può attraversare quel confine con il passaporto armerno. E non è l’unica. Lei, e i migranti di passaggio a Menoyia, hanno in comune un filo spinato. Incuneata nella buffer zone, si trova la Chiesa di Santa Croce. Sul muro adiacente alla chiesa si stende il filo spinato e sotto un’immagine di Papa Francesco, il quale, in visita sull’isola nel dicembre del 2021, rivolgendosi alla comunità cattolica disse: “Siete immersi nel Mediterraneo: un mare di storie diverse, un mare che ha cullato tante civiltà, un mare dal quale ancora oggi sbarcano persone, popoli e culture da ogni parte del mondo. Vengono a chiedere libertà, pane, aiuto, fratellanza, gioia, ma trovano davanti un odio che si chiama filo spinato”.
…quando hanno visto i colori, i pennelli e i nostri tre sorrisi tutto ha cominciato a scorrere. E il murales, che abbiamo preparato all’interno della mensa, a poco a poco ha preso forma e colore con l’aiuto di tutti
– Pantelis